THOMAS HARRIS: CARI MORA
Di Fabio Orrico
Scrittore poco prolifico e dal talento sicuro e allo stesso tempo fragile, Thomas Harris ha, ai miei occhi, un unico ma grandissimo difetto e cioè l’aver svenduto la sua creatura più famosa, lo psichiatra-cannibale Hannibal Lecter, alle lusinghe del box office. Attenzione: non si tratta di essere indulgenti verso franchising cinetelevisivi o eventualmente di consentire la sovraesposizione di un personaggio. Si tratta soprattutto di snaturare il character quando non tradirlo addirittura, senza mostrare intelligenza narrativa e senso delle proporzioni. Mi spiego meglio: in Drago rosso e nel più famoso Il silenzio degli innocenti, Lecter non era il protagonista, bensì affiancava due agenti dell’FBI in qualità di bizzarro consulente e finiva (e qui sta il colpo di genio del primo Harris) per rappresentare la cattiva coscienza dei suoi protagonisti.
Lecter era il male senza mediazione e senza scuse, un personaggio decisamente irricevibile alla coscienza del lettore comune. Quando Dino De Laurentiis decide di far fruttare la gallina dalle presunte uova d’oro ecco che Harris, dimostrando di non capire nulla della sua stessa creatura, si mette al servizio delle major (siano esse editoriali o cinematografiche) e promuove Lecter, che funzionava magnificamente come deuteragonista e grillo parlante malvagio, a primo attore. Il cambiamento di status ha un suo prezzo, perché Lecter diventa buono. O meglio, diventa buono per frotte di consumatori di noir col pelo sullo stomaco e la morale facile. Lecter da ora in poi uccide solo gente più cattiva e spregevole di lui e Harris, agli ordini del capitale, non ci risparmia la sua patetica origin story condita da abominevoli traumi infantili. Harris è venuto meno al primo comandamento di un noirista: non temere il male ma guardarlo in faccia, raccontarlo, non scendere a patti moralisticamente con le aspettative di un pubblico che, sì, vuole essere spaventato ma non realmente spinto a interrogarsi sulla propria metà oscura.
Adesso, ricco e rispettato, lo scrittore americano torna sugli scaffali delle librerie con un romanzo intenso e veloce, finalmente libero dagli obblighi della sua saga più famosa e tristemente deragliata. Cari Mora mette al centro, fin dal titolo, una ragazza reduce dalle Farc colombiane in cui prestava servizio come soldatessa bambina. Cari, ora emancipatasi dal suo passato lavora a Miami come custode in una villa appartenuta a Pablo Escobar nella quale pare essere nascosto il tesoro del narcotrafficante. Naturalmente il bottino fa gola a molte persone, nessuna raccomandabile. Il villain con cui la ragazza deve misurarsi si chiama Hans-Peter Schneider, mercenario tedesco con tanti punti in comune con il vecchio Hannibal ma senza nessun desiderio di redenzione letteraria. Schneider, cattivo come la merda e connotato da pulsioni sessuali che definire deviate è puramente eufemistico, ci catapulta direttamente al primo Harris. Il romanzo è, di fatto, una sanguinosa partita a scacchi tra Cari e Schneider.
Questa volta Harris sembra abbandonare ambizioni che non siano quello di confezionare un noir secco ed efficace, una pulp fiction che, per il suo nitore e la sua compostezza, finisce quasi per sembrare fuori moda e quindi rivoluzionaria. Nello stesso periodo in cui leggevo Cari Mora guardavo Too old to die young, la bellissima serie di Nicolas Winding Refn e, visto che tutto Harris è stato tradotto in cinema, fantasticavo su come sarebbe bello se il regista danese incontrasse questa storia e la riconvertisse nella sua calligrafia sonnambolica e definitiva. In ogni caso Cari Mora mi sembra segni il ritorno di un autore noir alla sua vocazione più autentica: un racconto di avidità e violenza, privo di scorciatoie moraleggianti, con personaggi che rubano, uccidono e muoiono senza tanti complimenti.
Noir, thriller
Mondadori
2019
235 p., rilegato