Prima traduzione italiana del diario che Petter Moen scrisse durante la sua detenzione nelle celle della Mollergata 19. Un nome e un luogo che, probabilmente, diranno poco, a molti. E allora andiamo con ordine. Mollergata 19 è l’indirizzo di quello che, negli anni della Seconda Guerra Mondale, era il commissariato di Oslo, poi utilizzato dalle forze di occupazione naziste per imprigionare e torturare tutti quei cittadini norvegesi che decisero di opporsi al criminale regime instauratosi a seguito dell’occupazione tedesca della Norvegia.
Petter Moen fu uno dei maggiori esponenti della resistenza norvegese e fu imprigionato in questo tetro edificio proprio per il suo ruolo nell’attività giornalistica divenuta illegale nel 1944 durante quello che fu definito Presskrakket, cioè il “crollo della stampa”. Con questo provvedimento si volle mettere definitivamente fuori gioco uno dei settori maggiormente coinvolti, e vitali, nella resistenza. Moen trascorse in questo famigerato edificio il periodo che va dal 10 febbraio 1944 e il 4 settembre dello stesso anno, prima di morire durante il trasferimento in nave che avrebbe dovuto condurlo, con altri prigionieri, in Germania.
Sono, quelle del diario, pagine che commuovono e colpiscono non solo per ciò che rappresentano nella letteratura della resistenza al nazismo ma, ancor più, se si pensa alle condizioni in cui furino scritte e il modo in cui vennero letteralmente vergate. Moen le scrisse tra una tortura e l’altra, tra un’ispezione e l’altra della sua cella vuota, in cui, in maniera crudele e insensata, i guardiani effettuavano quotidiane incursioni. Ma non solo. I fogli su cui queste diario venne scritto erano quelli grigi e duri usati come carta igienica su cui Moen incise le sue riflessioni e le sue descrizioni con un ferretto staccato dalla tendina che doveva oscurare la piccola finestrella della sua cella.
Ma Mollergata 19 è anche la testimonianza di una delle resistenze più decise, compatte e quasi eroiche, di tutto un popolo, quello norvegese, appunto. Basata su una struttura sia civile sia militare, la resistenza norvegese all’occupazione nazista fu caratterizzata da una pressochè totale unità di tutte le forze che andavano opponendosi al regime. A partire dal governo che, avendo rifiutato qualunque tipo di compromissione e ricatto da parte degli occupanti, fu costretto a “esiliarsi” in Inghilterra. In Norvegia la popolazione, a tutti i livelli, diede vita ad una forma di opposizione che venne chiamata, in modo molto suggestivo e preciso, “fronte di ghiaccio” ovverosia una forma di isolamento sociale verso chiunque si fosse dimostrato connivente al regime.
Ma particolarmente forte, tenace e quasi granitica fu la resistenza da parte degli insegnanti (che in modo quasi unanime si rifiutarono di rendersi parte attiva nel processo di “nazificazione” degli studenti) e, appunto, della stampa illegale. Moen faceva parte della redazione di uno dei maggiori giornali della resistenza, il London-Nytt che, tra le altre cose, si occupava di trasmettere alla popolazione le notizie provenienti da Londra e dall’Inghilterra. Sopperendo così alla mancanza di aggiornamenti causata dalla requisizione e dalla messa fuorilegge di tutti gli apparecchi radio.
È in questo contesto storico dunque che si inserisce il diario di Petter Moen, sulla scia di quella letteratura della prigionia e della deportazione di cui il XX secolo ci ha dato testimonianze sempre più numerose. E di letteratura, anche nel caso di Moen, si può e si deve parlare, a buon diritto. Pagine e pagine in cui Moen riflette, in una condizione di pressochè totale oscurità, sul bene, il male, Dio, gravido di dubbi e di domande. A colpire è soprattutto la sua messa in discussione del suo rapporto con Dio, un rapporto che va cercando, memore della “fede dei padri” ma che, in un certo senso, non riesce a trovare. Sono pagine in cui l’etica si politica, in cui la sua stessa decisione di campo è quel sacrificio che, solo, scardina un intero sistema, un intero meccanismo di persecuzione e morte. Morte. Già, anche questa è, ovviamente, tema delle riflessioni del prigioniero, presente in ogni istante, come concreta possibilità attuale e futura.
Sono pagine, queste, certo non nate da un intento letterario eppure testimoni altissimi di come la letteratura e la scrittura divengano non solo “tecnologie del sé” ma anche, e soprattutto atto etico e politico. Con il loro continuo interrogarsi sul ruolo del singolo dentro l’universale, con le sue decisioni legate al rifiuto dell’annientamento.
Il volume è arricchito da fotografie della prigione, degli involucri di carta in cui Moen rinchiuse le pagine del diario prima di infilarli nella presa d’aria della cella, degli interni del carcere e, soprattutto, da un bellissimo saggio di Maurizio Guerri non a caso intitolato Scrittura ed etica nella resistenza
Diario, testimonianza, letteratura della deportazione
Quodlibet
2019
198