JOHN D. MacDONALD: CAPE FEAR
Di Fabio Orrico
Tra le voci più rappresentative del noir statunitense, John D. MacDonald, in Italia, ha purtroppo goduto di minor fortuna rispetto ad altri colleghi. Cape fear, il suo libro più celebre probabilmente in virtù dei due film che ne sono stati tratti, torna in libreria grazie a Mattioli 1885 e a Nicola Manuppelli, suo traduttore ed estimatore. In precedenza per lo stesso editore era uscito Il termine della notte, probabilmente il capolavoro di MacDonald, un sanguinario percorso on the road che era anche un saggio allucinato sul darwinismo della società americana. Cape fear si inoltra nello stesso sentiero, seppur in modo meno estremo ma garantendo una equivalente porzione di suspense.
Diciamo subito che questo romanzo, scritto nel 1958, riesce ad essere attuale e a plasmarsi sul presente del lettore. Lo dimostrano in fondo le due già menzionate versioni cinematografiche. Quella di Jack Lee Thompson (1962) che inseguiva echi hitchcockiani e contrapponeva uno sbiadito Gregory Peck a un Robert Mitchum di torva quanto disturbante sensualità. Trent’anni dopo Scorsese preferirà rimescolare le carte dell’american way of life, anticipando una quota d’inferno direttamente in famiglia: liti e tradimenti nella coppia formata da Nick Nolte e Jessica Lange con l’adolescente Juliette Lewis modernamente attratta dal lupo cattivo Robert De Niro. Cape fear, insomma, come canovaccio per le inquietudini e i drammi del proprio tempo, un po’ come succede con gli ultracorpi di Jack Finney. Ma John MacDonald di cosa voleva parlarci esattamente quando raccontava la vicenda dell’avvocato Sam Bowden, perseguitato dal criminale Max Cady? Su un piano propriamente esistenziale diremmo quanto è fragile la normalità, quanto sia continuamente da verificare, rinegoziare e in definitiva da riconquistare ogni volta. Sam Bowden manda in galera Max Cady durante la guerra, salvando una ragazza dallo stupro. Ma una volta libero Cady si mette subito in cerca del suo accusatore che nel frattempo ha messo su famiglia. Ecco che la vita perfetta del borghese Bowden, una moglie bella e innamorata, tre figli (la più grande, una teenager che significativamente ha la stessa età della ragazza molestata da Cady), una bella casa e un buon lavoro, è messa radicalmente in discussione. La minaccia è così terribile da non poter essere ignorata: la dissoluzione del suo mondo. Su un piano sociale MacDonald mette in scena la wilderness, sottofondo morale di tanta letteratura (e cinema) a stelle e strisce. Il deserto che, dopo esser stato bonificato e fatto fiorire dai pionieri, torna a reclamare il suo spazio, erodendo l’oasi e la civiltà, spingendosi fin dentro il cuore delle città e dei rifugi borghesi. Ma se è facile leggere Cady (nel libro, a differenza che al cinema, praticamente invisibile e perciò ancora più minaccioso) come metafora della violenza endemica che informa la storia americana, più perturbante risulta assistere all’evoluzione di Bowden, da cittadino modello a potenziale assassino. Anticipando il Peckinpah di Cane di paglia, MacDonald ci dà un saggio antropologico sulla difesa del territorio. Minacciato nei suoi affetti e nel suo status, Bowden scopre il proprio lato oscuro e chiude la partita mortale con Cady senza che gli sia concessa alcuna catarsi, in un certo senso lasciando che la montagna del rischio totale partorisca il topolino di una riscossa casuale quanto, in fondo, normalizzante. MacDonald ricostituisce l’ordine non rinunciando a una nota cupa sul finale. Proprio quando in teoria la giustizia ha trionfato e il pater familias ritrovato la serenità, ecco che un’innocua, semplicissima nuotata diventa la metafora di un cataclisma e uno specchio d’acqua riflette la tempesta.
Noir, thriller
Mattioli 1885
2019
199 p., brossura