DANTE E FARINATA DEGLI UBERTI NEL X CANTO DELL’INFERNO
Di Graziella Enna
Forse facendo il confronto con i giorni nostri, in cui, sedicenti politici si sfidano, si confrontano a suon di insulti, volgarità e istrioniche esibizioni corredate di discorsi politicamente scorretti, ci salterebbe subito agli occhi il modo in cui Dante, nel X canto dell’Inferno, ci presenti un suo avversario politico appartenente alla nobiltà ghibellina, Farinata degli Uberti.
Dante, addirittura lo annovera tra i cosiddetti magnanimi, insieme con altri personaggi, che pur essendo costretti a scontare le terribili ed eterne pene infernali, si sono distinti nella loro vita terrena per il loro corretto agire in determinate occorrenze, la loro probità, le virtù etiche svincolate dalla morale religiosa, o più semplicemente, la grandezza d’animo, traduzione letterale del termine “megalopsichia” usato da Aristotele nell’etica nicomachea e contrapposto alla pusillanimità.
Dante incontra Farinata tra gli eretici, alcuni dei quali sono epicurei, che in ottemperanza ad una visione materialistica del mondo, negavano l’immortalità dell’anima. Tale eresia veniva attribuita da molti contemporanei di Dante, non si sa se a ragione o a torto, agli esponenti della fazione dei Ghibellini.
Virgilio spiega al Poeta, mentre procedono, che gli avelli infuocati in cui sono puniti gli eretici resteranno scoperchiati solo fino al giudizio universale, quando si ode una voce provenire da una delle arche: e’ Farinata che riconosce in Dante l’inflessione della parlata fiorentina e gli chiede a quale schiatta appartenga. Virgilio raccomanda a Dante che le sue parole siano “conte” ossia appropriate, dignitose, consone al personaggio. Infatti Farinata si erge dal suo lapideo sepolcro con il petto eretto e la fronte alta, “come se avesse l’Inferno a gran dispitto”:egli non si affligge tanto per la pena a cui è sottoposto tanto per un altro motivo che spiegherà più avanti.
“O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto”.
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai”.
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: “Le parole tue sien conte”.
Appresa la progenie di Dante, Farinata sottolinea che per ben due volte, grazie a lui, i Guelfi furono cacciati, ma il Poeta, usando quasi un improperium gli risponde duramente che comunque i suoi compagni di partito riuscirono a tornare entrambe le volte mentre gli Uberti rimasero perpetuamente in esilio,
“non appreser bene quell’arte”.
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”.
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi”.
“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”,
rispuos’io lui, “l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte”.
A questo punto, con un colpo di teatro si inserisce il personaggio di
Cavalcante padre del poeta Guido, che dopo aver chiesto a Dante come mai il
proprio figlio che ha la sua stessa altezza di ingegno non si trovi lì con lui
a compiere quel cammino, ottiene una risposta che lo induce a pensare che sia
morto, ma in realtà intende male.
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?”.
Nel mentre Farinata, che viene chiamato in questo punto “quell’altro magnanimo”, era rimasto impassibile, continua a parlare e, con l’oscuro linguaggio della profezia, predice a Dante l’esilio, dicendogli che non passeranno cinquanta lune che egli imparerà a sue spese l’ardua arte del rientro in patria. Continua poi col chiedere il perché di tanto accanimento da parte dei fiorentini nei suoi confronti nonostante avesse difeso, nel concilio di Empoli, a viso aperto, la città di Firenze, quando gli altri capi ghibellini ne avevano proposto la distruzione. Dante gli spiega che tanto discredito e’ dovuto alla strage di Montaperti, tanto efferata da aver reso il fiume Arbia colorato di rosso, per il sangue dei tanti Guelfi uccisi dai Ghibellini.
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
e sé continüando al primo detto,
“S’elli han quell’arte”, disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?”.
Ond’io a lui: “Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio”.
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
“A ciò non fu’ io sol”, disse, “né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto”.
Scomparso
Farinata, Dante e’ molto turbato dalle parole che ha udito e Virgilio lo
conforta dicendogli che quando giungerà davanti allo sguardo di Beatrice
apprenderà la verità sulla sua vita.
Sia Dante che Farinata, pur essendo fieri avversari politici sono accumunati
dall’attaccamento nei confronti della loro città, (che viene espresso dalle
loro parole ricche di pathos), e dalla loro sorte identica di esuli, anche se
sono divisi dal differente credo politico, perciò alla fine il nostro poeta
Guelfo si identifica nel personaggio del Ghibellino, divenendone quasi un
tutt’uno.