Giullarata autoirridente, ovvero Narciso cristico si sfregia e computa e dissolve, facendo (si) le boccacce Di Piero Dal Bon Grandi storie non le ho da raccontare, questo no (ma oddio), anche quelle volendo, ma se vi accontentate di poco (modesti modesti…), come di una blanda (bianca? di sarabanda e lavanda? di olio e feconda?) svagata, squadrata, spiazzante storiella da tè con i pasticcini (amorfa e imborghesi ta)…Bene, d’accordo, quatti quatti, allora fermatevi davanti alla croce rettangolare su cui mi riposo, sorrido e vi straparlo, ilare ed espanso e vi racconterò come ci sono finito, per davvero, con i chiodi i fori sanguinanti e tutto il resto. Bende comprese. Stracci al sole. Miste e meste. Sotto il cielo d’agosto pingue d’abbandoni d’estensioni nell’illimite. Di tuorli turaccioli fischi micce e minacce. Ce se ne infischia, di questi addendi. Debbo scusarmi (con un resto d’insinceritá e d’inchiostro) innanzitutto, di queste sgradite e rivoltanti s-confessioni, di un obbrobrio ributtante e suddiviso, che aggredisce chi guarda. Ma se si ascolta la voce carezzevole che esce dal mio pollice o alluce- non lo so più, non l’ho mai saputo- si accetterà a che io venga riammesso dentro la folta comunità che ascolta. Folta fitta e verminosa. Funghevole. Che funghisce. O stormisce irretimenti e vischi. Faccio schifo pure, lo concedo, non ho vestiti né principi, difficile e irto non ammetterlo, foschi si diemette, però sono squadernato magnifico bleso disfatto e gentilomesco (nel gesso dello sparato dell controdecoro dell’eccesso) e qui sulla croce, che oramai è un altare, garantisco il fisco e la cittadinanza da sorprendenti, trascurabili, novità noncalenti. Mi inchiodo (esoso e pornografico) in una trafila tradita che ha molto del rassicurante. Agh! Che io sia maledetto per questa linguaccia sconcia, violacea, che penzola liquami acetlineci. Ma si guardi per un momento l’indaco del mare, i picchi aguzzi dei monti, laggiù. La buona creanza del creato mi assolverà dalle taglienti crudezze rituali del gran Rifiuto della prostrazione prosternata. Sempre postergante. Da terga a catecumeno. Sarei stato una grande, scaltro, adulante, Buffone ad averlo potuto, ad averlo saputo, rinsecolato di trasecolamenti ebbri… i miei schernevoli oltraggi graditi ad un Re magnanimo e crudele. All’occasione avrei fatto cerimonie salamelecchi e sberleffi, sciorinato facezie, leccato fiche principesche, e lussuose. Discretamente sontuose,, d’altro bordo. O borgo eccelso. Suite velluti e tracimance. E invece no. Imbarazzato a cornucopia ho danzato il mio pedalato tip tap (e pure il charleston, aperdifiato )su pozze di lune mozze dentro cavità profonde tra un girotondo di prigionieri illesi. Senza corte e mirati spettatori e smiracolanti ebrezze. Chi si ricorderà di quel ossesso e squassato- squinternato- monologo furibondo- davanti allo specchio, delle mobili smorfie, delle simulazioni violente, delle oneste (o astute?) dissimulazioni dei calci delle vertigini degli sberleffi dei cachinni i ghigni le capriole le giravolte le chiesate le approssimazioni scomposte (sghembe, bauche)… Ma vado in crescendo… troppo troppo. C’è un po’ di scempiata (sempia?) sguaiataggine, o guasta, in quello che dico grido o dico e ridico (deridendo irridendo, fatuando lo sfiato dell’inchiostro): un che di troppo esibito e sofferto. Che strazio! ‘Sto incesto, è proprio vasto…. In fondo non sono che una marionetta disossata e sciolgo la briglia alla lingua che mulina fanfaronate. Non c’è più nessuno. Se ne sono andati via tutti prima che io iniziassi. Che perfetta allegoria! Sbircio al mio fianco uno dei due ladroni che ronfa. Cola la sera tra gli uliveti. In fondo l’ho fatta franca anche ‘sta volta. Com’è venuta è venuta. Strizziamo l’occhio guercio e disorbitato alla luna che sanguina mestruo, rigerminante. Che rifocilla la spremuta pupilla ventrale. (rifacimento) L’immagine di copertina è La nave dei folli, di H. Bosh |