Viaggi e mete, mentali
Di Paolo Massimo Rossi
Ero solito vagare in città senza programmi. Quando ancora lo faccio, è sempre per una meta non prestabilita, sorta di esplorante innocenza di strade e di piazze. Non sempre funziona così, credo dipenda dal fatto che, da un po’ di tempo, sogno di più, anche se non sempre ricordo che cosa. Silenziose apparenze, vaghi desideri.
C’era un amico, Zeno, che riusciva a suggerire e a condurmi verso l’orizzonte speranzoso degli uomini, ma la speranza riguarda spesso la poesia, non sempre la ragione.
La poesia evoca ombre; può insinuarsi come un’illusione – certo dolce e a volte esaltante – che talvolta riesce a infondere vita a evanescenti fantasmi. Sul passato ha un oscuro potere, cercandone le parvenze, le intangibili forme. Sul futuro agisce come droga leggera, qual liquido alcolico che smaschera, finalmente, il tanto che dà tanto. Per il presente, fa da pendant alla felicità mancante: la felicità non crea vera poesia, se lo fa, è rarissimo evento.
Riprendo il viaggio – quello privo di mete – perché tra i pensieri si aggirano immagini che, paludate d’antico, anelano il nuovo.
Dopo un’ultima occasione nelle campagne che circondavano il paese di mia madre, non rividi più Zeno. Qualcuno mi disse infine che era diventato poeta, uno vero, uno che esplora le emozioni per raccontarle senza cadere nella palude dell’innamoramento di sé o della suadenza ingannatrice dei propri versi.
Ma c’è un tempo per comunicare e un tempo per riflettere.
Accadeva, viaggiando, che ragione mostrasse le ripetute convenienze dell’educazione, malgrado che i desideri chiedessero di perdersi nel rapimento morboso delle trasgressioni. Tali erano, e sono, i meccanismi che funzionano a disconnettere le reti dei pensieri, affinchè equilibri continuamente minacciati conservino il modo per bilanciare gioie e i dolori.
Il viaggio, altalenante tra pause e ripartenze, conobbe, in giorni di maggio, una donna di eleganza ineffabile che mostrava, dietro ironici sguardi, occhi che solo all’apparenza sembravano indifferenti e distanti. A un’indagine seria e accurata svelavano illusioni morgàne e accecanti miraggi, quali riverberi del deserto che fanno agognare acqua trasparente a uomini in marcia e assetati. Allora, un’intrigante amicizia avrebbe percorso quei viali di maggio proiettandoli verso ombrose sere d’ estate e verso ugge autunnali, in attesa di coltivare in inverno i riti, di necessità saltuari, per la voluttà di anime e corpi. Fulvia era il nome, personaggio che nacque da artificio fantastico, simile a quel di Cyrano (fu saccheggiata l’idea di Rostand) che scriveva al fine di sedurre Roxanne.
Ineluttabile sopravvenne un sogno in amblé: la bellezza come felicità dei sensi, questi non inviluppati nell’ipocrisia del vivere quieto.
Lei sussurrò: «T’immagino sonnambulo,» antropomorfica fantasia prese atto.
È pleonastico dire che in ogni luogo si ritrova sempre un angolo da cui il viaggio era iniziato? L’angolo delle circostanze eventuali e impreviste, dal passato al futuro e viceversa, da scrivere e raccontare. Infatti, la scrittura è l’unica scienza (la scrittura deve essere una scienza se non vuole scivolare nel patetico) che, accarezzando filosofici temi, può violare la freccia del tempo.
Dunque i pensieri favorirono un nuovo viaggio, importa da dove e per dove?
Il tempo: un mattino d’autunno accompagnato da un sole ultima chance, nel rugginoso invito di provvisorio colore. Strade anguste, vicoli che immettevano in un inizio che sia; esitavo. Ne parlai all’amico Maurizio, sentenziò: tua madre. Non risposi e lui mi fece notare che, come al solito, non rispondevo. Gli resi palese, pur con il beneficio del dubbio, che rimpiangeva il confessionale.
Fu inevitabile incamminarci in silenzio.
L’autunno s’inoltrava nell’ombra e nell’odore di foglie marcenti, mentre Maurizio notava che la strada, quella appunto percorsa, con gli alberi dai rami sparuti e con gli striduli gracchi di corvi indifferenti ai passanti, costituiva un segno, una premonizione di futuro viaggio. A se stesso, perciò, consigliò Compostela, non ne compresi l’inferente motivo. D’altra parte, in pochi conoscevano i suoi veri pensieri, raccontati con un linguaggio a volte divagante, a volte teso a procedere nel surreale al di là del significato.
Lo immaginai ruotare, per le strade di Spagna, come un vero viaggiatore propenso solo a partire, dicendo “Andiamo,” senza sapere perché, magari alla ricerca di prostituzione proposta non per denaro, ma con accattivanti sorrisi, inevitabili per pellegrini in cerca di dubbi.
Compostela lo aveva accolto con un leggero vento di ponente che trascinava nubi veloci di passo, sempre le nuvole di quell’atlantica plaga sono di un argenteo grigio canna di fucile.
Seppi che si era ritrovato a seguire il funerale di uno morto da giorni. In chiesa, le porte erano state chiuse: i parenti gelosi a nascondere un intimo dolore.
Maurizio era entrato dal retro, attraverso una ripida scala, diversa da quella frontale larga e cupa di barocco spagnolo; quella posteriore era stretta, le pareti odorose di calce e imbiancate da poco.
Andai ad attenderlo all’aeroporto al ritorno. Mi parlò di modeste trattorie di campagna, di funerali e cattedrali ristrutturate da poco, nulla mi disse di Giacomo il Santo e io rimasi perplesso al racconto.
Ne favoleggiai, tempo più tardi, a Fernando, vecchio amico d’infanzia, che mi fece notare come Maurizio avesse ragione. Ero io a rimanere legato a un cogito che, ne era certo, non mi avrebbe condotto in nessun luogo, se non all’intorno di labirinti mentali. Concordai, il giudizio era corroborato dal fatto che Fernando conosceva Maurizio solo dalle mie storie, necessariamente viziate – dopo anni di rivagheggiati indizi – da inevitabile entropia del linguaggio.
Fui costretto, per questo, a rendere meno angusto il racconto.
La ricerca – perché di ricerca si trattava – doveva cominciare da un viaggio fatto dentro ognuno di noi e non sui selci delle strade.
Questo dicevo a Fernando, pur mancando di rigore il ricordo.
Ma un ormai statico viaggio, in costante pressione mentale/amicale, reclamava le sue urgenze e le sue verità. Per rimettersi in moto, sarebbe stato opportuno rivisitare le informazioni immaginate e le equivoche affermazioni. In un tempo fisico o letterario? Il presente nelle parole in divenire, il passato nei pensieri tornanti.
D’altra parte, legittime diversità interpretative potrebbero essere giudicate, di volta in volta, oscene, giocose, non consoni all’idea che si accredita inevitabilmente (obbligatoriamente nei contesti vigenti) di se stessi.
Ma c’è l’altra faccia della luna! Chi non ne ha?
Parlavamo, con Fernando, seduti in poltroncine di vimini sul terrazzo di casa sua. Era una tarda sera di primavera e, come ogni anno in quella stagione, Fernando celebrava un rito: osservare il viaggio delle rondini in arrivo da occidente.
Dopo inutile attesa, mi disse che, di certo, sarebbero arrivate l’indomani. Il discorso virò, allora, dalle rondini alla quotidianità e all’autenticità della vita, e ci chiedemmo se mai se ne potrebbe parlare senza parteciparvi, nel qual caso, convenimmo, questa rischierebbe di decadere nell’ imitazione di sé. Anche se poi la saggezza di ognuno di noi ci farebbe recuperare, contro l’arroganza della presupponenza, l’umiltà nei rapporti interpersonali.
Forse, solo uno scrittore di grande talento potrebbe resistere a qualsiasi stimolo a risolvere i problemi pratici, appunto, della quotidianità.
Pura teoria, naturalmente, ma possibile nelle circostanze limitate in un terrazzo e al proseguire di un viaggio che s’inoltrava in una sera di primavera incipiente.
Parlammo, più tardi, dell’amore e delle donne, e di come queste possano essere trascinate a rinunciare a qualcosa del proprio io, amaramente giocando una partita nella quale troppe volte sono destinate alla sconfitta. Eppure, osservai, molte donne stanno imparando a comportarsi da uomini. Ma Fernando aspirava a un mondo fatto di equilibri e reciproca sincerità dei ruoli.
Fu così, nel corso di quella sera, che i pensieri – fuggendo il rischio di rinchiudersi in monadi isolate – si avviarono a esplorare i bisogni degli esseri umani e delle loro anime. Magari esprimendosi in una cadenza di personali intendimenti che, al di là di ogni apparente autocompiacimento, sapessero accettare – con ovvia saggezza – l’altalena dei viaggi tra sogni e realtà.
L’immagine di copertina è Stati d’animo. Gli addii, di Umberto Boccioni, olio su tela 1911