Matilde, il viaggio, il cigno nero
Di Paolo Massimo Rossi
Il limite del ragionamento secondo
cui tutti i cigni sono bianchi è dato
dai limiti dell’esperienza che ci porta
a credere che non esistano cigni neri.
Treno verso Milano.
Matilde, seduta accanto al finestrino, cercava di immaginare l’aspetto di suo padre, non lo vedeva da quasi vent’ anni. Da quando era andato via di casa lasciandola sola con sua madre, dopo essersi innamorato di un’altra donna, le avevano raccontato.
Matilde, all’epoca, aveva solo otto anni. Ricordava poco quel padre, e sua madre, oltretutto, aveva distrutto ogni fotografia, comprese quelle del matrimonio.
Ma perché era andato via? La domanda, rimasta per anni senza una chiara risposta, sempre più aveva assillato i pensieri nel corso del tempo.
Sapeva solo, dalle parole materne, che quell’evento era stato incomprensibile.
Eppure suo padre era fuggito e sparito, segnando in tal modo per sempre la vita di sua madre che, da allora, aveva coltivato nella mente e nel cuore ombre e rancori. Si sentiva, così ripeteva a Matilde, uccisa dentro, violentata nell’amore e nell’affetto, con il respiro incarcerato, oppressa in una strada nella quale mai avrebbe pensato di dover camminare da sola.
Tutto questo pensava e ricordava Matilde, mentre il treno le trasmetteva ritmiche vibrazioni e monotoni echeggi.
Come sarebbe stato l’incontro? Si sarebbero riconosciuti subito? Sarebbe riuscita a parlargli? L’avrebbe aspettata in stazione, le aveva detto al telefono.
Era sola nello scompartimento, guardava la campagna che scorreva fuori anonima e sempre uguale e, improvvisamente, sentì come velleitario il tentativo di inseguire un sogno il cui significato restava confuso. Forse era inadeguata al compito che si era prefisso.
Il treno cominciò a rallentare attraversando la periferia della città, entrò sotto le grandi coperture della centrale di Milano e infine si arrestò contro i respingenti in fondo ai binari.
Matilde scese i predellini guardandosi intorno.
Non riuscì a individuarlo subito, lo riconobbe solo quando lo vide arrivare, con un sorriso stereotipato sul viso.
Non ricordava l’aspetto che aveva quando era andato via: adesso era corpulento, non tanto alto, con una massa folta di capelli brizzolati.
Non è mio padre, pensò, eppure lui l’aveva riconosciuta subito.
Le porse la mano in silenzio e, dopo un attimo di imbarazzo, la baciò sulle guance.
Matilde non riusciva a parlare e fu lui a chiedere semplicemente:
“Come stai Matilde?”
Le sembrò che ogni risposta sarebbe stata inutile, sentiva solo un groppo alla gola che le impediva di parlare.
Tutte le parole che aveva pensato di pronunciare sembravano dimenticate e lasciò che fosse il padre a continuare.
“Hai voluto incontrarmi e, adesso, non hai niente da dirmi?”
“Ho avuto paura che la mia voce ti sembrasse sgradevole.”
Ebbe un’esitazione per la frase poco felice, poi disse:
“Da bambina pensavo di avere una brutta voce, anche se sognavo che da adulta avrei potuto stupire la gente con un tono diverso …”
“Ma tu hai una bella voce,” la interruppe il padre.
“Lo dici perché vedi il mio disagio?”
“Posso abbracciarti?”
“Vorrei farlo anch’io.”
Si abbracciarono e si scambiarono ancora un bacio.
“Vieni” le disse, “Ho l’auto nel parcheggio nel piazzale qui fuori; non hai neanche una borsa?”
“No, non posso trattenermi più di qualche ora.”
Attraversarono il grande atrio al primo e scesero al piano terra con la scala mobile. Camminavano vicini e lei pensava che non poteva farsi vincere dal malumore e dall’emozione.
Giunti all’auto, il padre le aprì lo sportello par farla salire, poi entrò a sua volta e avviò il motore.
Matilde lo guardava guidare un po’ nervosamente nel traffico di Milano e sentiva quel viaggiare emblematico di un lasciarsi alle spalle il mondo della sua infanzia.
Si rese conto che il disagio di suo padre fosse molto più grave del suo: durante il viaggio, non aveva riflettuto che sarebbe stato così.
Restarono in silenzio fin quando giunsero a San Donato, alla periferia sud della città. Avrebbe voluto sentirlo parlare, ma il silenzio di questo genitore semisconosciuto le faceva provare il senso di una certo non voluta crudeltà.
Era così diverso dalla persona alla quale, in rare occasioni, aveva telefonato per ascoltare qualche breve notizia o per dire che aveva voglia di rivederlo.
Si sentì quasi violentata a parlare.
“Dimmi qualcosa, papà.”
“Siamo arrivati, andiamo su, vorrai darti una rinfrescata, penso.”
Salirono al terzo piano, entrarono in casa e il padre si diresse in cucina.
“Ti preparo un caffè, sarai partita molto presto questa mattina,” le disse.
Matilde si guardò intorno, sedette su un divano e rimase in attesa: non del caffè, ma di qualche parola. Non di amichevole cordialità, ma pronunciate in un’atmosfera naturale: quella che esiste tra persone abituate a vivere insieme con affetto.
Nella stanza – un piccolo salotto – non c’era nulla che potesse farle capire della vita di suo padre, ma poteva essere diversamente? Cosa pretendeva?
Lui le servì il caffè, ne bevve a sua volta e sedette su una poltrona accanto.
Le chiese: “Cosa fai nella vita, Matilde? Studi? Lavori?”
“Mi sono laureata tre anni fa, in lettere moderne, ho già fatto delle supplenze ma, quest’anno, spero di avere un posto fisso in una scuola superiore.”
Le sembrava impossibile che un padre non potesse sapere niente di una figlia e che dovesse essere lei a parlargli di cose così normali.
Non gli chiedeva neanche se avesse un fidanzato, un amore, se pensava di sposarsi.
Fu lei a chiedere: “Parlami di te, papà.”
“Perché?” le rispose.
“Come perché. Ti sembra una risposta da dare a una figlia che non vedi da vent’anni?”
“Forse puoi capire …”
“Sembri stanco, papà.”
“Lo sono.”
“Lavori troppo? Hai dei problemi?”
“Ma no.”
“E allora? Prova a raccontarmi di te.”
“Adesso?”
“Cosa ci impedisce di parlarci come possono fare un padre e una figlia, anche se un tempo tanto lungo ci ha separati?”
“Forse non sono bravo a parlare di me,” rispose il padre con una certa esitazione nel tono di voce.
“Perdonami, non volevo irritarti, il mio è solo il desiderio di abbattere una parete che da troppo ci separa. Magari lo faccio goffamente, ma sono spontanea.”
Tacque per qualche secondo, mentre il padre sembrava resistere in una silenziosa attesa. Poi, Matilde sentì improvviso il bisogno di lasciarsi andare, di smettere di girare intorno a sentimenti che, ormai, sembravano non più contenibili nel loro bisogno di manifestarsi, di dare libero sfogo alle tensioni che si erano accumulate negli anni. A costo di diventare un fiume in piena, mettendo da parte ogni ritegno di circostanza:
“Sapessi quante volte la mamma mi ha detto che sai dissimulare i sentimenti, che sei bravissimo a nasconderti dietro una maschera. Ma il suo non era un giudizio negativo, anzi, io credo che ammirasse in te un saper fare che sapesse di cordialità, anche se di maniera. Quella che sapevi mostrare a tante persone tra le vostre conoscenze. Persone che ancora ti ricordano così.”
“Che vuol dire?”
“Come tante volte diceva la mamma, che insieme alla durezza del tuo carattere, in te convivono altri aspetti, intimi, di umanità e comprensione per gli altri.”
“Dice ancora queste cose di me?”
“Non solo, ma anche che, in certe occasioni, sai anche concederti – è il termine giusto? – al mondo in modo che tutti ti conoscano come persona di grande sensibilità.”
Credette che quelle parole, con la loro carica di provocazione, avrebbero potuto infrangere la corazza che il padre le stava opponendo: anche i suoi argini difensivi si sarebbero spezzati.
“Tutte queste tue parole servono a prestabilire il prezzo che devo pagare per le mie colpe?” le chiese.
“Un prezzo?” fece Matilde, che si sentì straordinariamente lucida nel continuare a esporre li suo pensiero.
“Quando vivevi con noi, la mamma pensava che avremmo condiviso tutto e che sempre ci avresti protetti. Pensi di averlo fatto? Cos’hai da dirmi, a questo punto?”
“Che sei la benvenuta! Anche se ripeti molto bene la lezione della tua mamma.”
“Questo è un tuo modo di sottrarti, immagino. Ma poi, finito il gioco verbale, probabilmente, ti ritroverai a rimuginare i tuoi problemi, se ne hai. Dunque, non cercare di sedurmi con le parole, perché non ci riuscirai, ognuno ha le proprie angosce in cui credere.”
“È questo che pensi? Sei venuta per rovesciarmi addosso tutto questo rancore?”
“Forse di più.”
“Davvero?”
“Parlami onestamente, ammetti con te stesso che troppe volte ti sei interessato agli altri solo con un atteggiamento di facciata, un modo di interpretare la vita che hai riservato anche a chi ti voleva bene, perciò non pensare di fuggire o di poterti lamentare adesso con me.”
Il padre la guardò con occhi che avrebbe voluto rancorosi, ma che esprimevano solo amarezza e disorientamento, poi le disse:
“Sembra che tu sia venuta per giudicare e non per capire, come speravo; anzi, dai l’impressione di volerti vendicare di qualcuno senza essere certa che sia veramente colpevole.”
“Il giudizio non può che essere il risultato di una presa d’atto … dell’aver macerato per anni il tentativo di comprendere,” disse Matilde con un tono di tristezza nel modo di scandire lentamente le parole.
“Ne sei certa?” la interruppe il padre.
Ma lei, accelerando di nuovo il ritmo: “Che importanza vuoi che abbia?”
“Comunque mi fa piacere che tu sia qui con me, adesso.”
“Si, come fossi il gatto di casa!”
“Come un essere umano, e mi dispiace questa acredine, questa ripulsa che provi per me. Un rifiuto che, certamente, è quello che hai mutuato da tua madre, e di cui io sono la causa ma che, adesso, fa male a voi non meno che a me.”
“Io non ho alcuna repulsione per te, assolutamente, piuttosto mi addolora pensare che anche tu possa essere infelice.”
“Matilde, tu stai cercando qualcosa che è impossibile: parlare con i ricordi, quelli che io ho cercato di cancellare e quelli che tu vivi in modo illusorio; e come fai a provare questa pena per una persona di cui conosci così poco?”
“Posso provarla pensando agli anni in cui ti sei nascosto a noi, e durante i quali, forse, ti sarai vergognato di te e di quello che ci avevi fatto.”
“Tutto, dunque, discende da un’interpretazione. Hai costruito un mondo che doveva coincidere non con una corretta o almeno plausibile analisi dei fatti, ma con il valore che questi dovevano assumere in quanto risultato di emozioni e sofferenze. In altri termini ti sei, o vi siete, affidate alla necessità della coerenza, non alla ricerca della verità e delle cause degli avvenimenti.”
Matilde rispose di getto: “Oh no! Non riuscirai a sostituire la coscienza con una presunta verità. La questione sono esattamente le tue idee, e non la coerenza tra queste e i tuoi comportamenti. Che vuoi che ci interessi della loro autenticità; in fondo, anche Hitler era autentico.”
“Vorresti paragonarmi a Hitler? È il risultato del lavaggio del cervello che la tua mamma ti ha fatto?”
“Non citare sempre la mamma, da come parli sembra che la sofferenza sia stata la tua e non la nostra, ma non sarà il sarcasmo a illuminare quanto di oscuro potrebbe esistere nelle nostre capacità di capire la vita.”
“Hai ragione, lo ammetto, ma tu hai mai pensato che potrei essere io a vivere nell’oscurità?”
“E dillo, allora, spiegami senza fuggire, aprendo il tuo cuore e dicendo la verità!”
“La tua verità? Ne hai bisogno per poter cancellare finalmente la mia esistenza, quella che, per anni, è soltanto aleggiata nelle parole non dette, in sottintesi da non esplorare veramente e in cui crogiolarsi?”
Per un attimo Matilde si sentì inadeguata a sostenere un colloquio del genere, ma si fece forza:
“Continui a parlare come se tutte le mie parole, quelle che oggi sono stata trascinata a usare, ti offendano; ma il tuo modo di risentirti ti è necessario per mascherare la tua voglia di fuggire: è solo una cattiveria che, di nuovo, finisce per ferire chi voleva averti accanto.
“Ma sì, capisco quello che vuoi dire.”
“No, non credo che tu capisca.”
“A questo punto, vorrei che tu mi dicessi il vero motivo che ti ha spinto a venire da me.”
“Ecco, in realtà non lo so più. Forse cercavo una spiegazione, un sorriso, un qualcosa da raccontare alla mamma ma, adesso, capisco che è tutta una velleità.”
“Io credo, invece, che tu volessi solo prendere atto che io non sono felice, temendo, invece, di scoprire il contrario. Vuoi la verità? Non lo sono e non so neanche perché io sia andato via, quel giorno di tanti anni fa.”
“Ma tu hai una compagna, vuoi dire che neanche lei ti ha dato quello che ti mancava con noi?”
“No, io vivo solo; la mia compagna, come la chiami, è andata via da più di dieci anni.”
“Come … è andata via? È quasi da non crederci, e tu non hai mai pensato di …”
“No, non si torna indietro.”
“Orgoglio?”
“Che importanza vuoi che abbia.”
“Ma come hai vissuto?”
“Il vissuto è tutto e niente, è il linguaggio che usiamo che lo delimita, lo reinventa, crea un’altra storia, una sorta di ritmo altro dal possibile racconto cronachistico.”
“Vuoi dire che tutti noi, allora, ci siamo adagiati su quanto sembrava ovvio, che abbiamo dormito, che ci siamo accontentati di qualcosa che rendesse accettabili le nostre conclusioni come anche le nostre motivazioni per sopravvivere?”
“E tu pensi che la sferza di un improvviso turbamento possa farci uscire dall’acquiescente accettazione di questa inerzia?”
“E dunque? Cosa farai, che ti aspetti dalla vita adesso?”
“Ma il vivere non è forse altro che aspettare? Non è l’attesa stessa il senso della vita, e non l’oggetto che si aspetta?”
“E i ricordi, che valore hanno, per te?”
“Ma non ti rendi conto che i ricordi, al di là del loro referente, regolarmente finiscono per trasformarsi nell’interpretazione di se stessi, nella scoperta della loro meta-verità?”
“Tu ti senti solo in colpa, papà; se io potessi dare libero sfogo ai miei sentimenti, ti direi che tutti possono esser perdonati.”
“Ti prego, Matilde, ti stai lasciando prendere da un inutile sentimentalismo. Eri venuta per dirmi quanto forte fosse il tuo rancore; per punirmi, magari solo con le parole, e adesso ti stai perdendo. Non sai nulla di me, non cadere nel ridicolo di confessarmi che mi vuoi bene. Non lo sopporterei e, domani, non lo sopporteresti neanche tu: il tempo aspira a essere un servo, eppure non riusciamo a essere i suoi padroni.”
“Non credo che tu sia la persona che, abilmente, stai cercando di apparirmi.”
“Sei intelligente, Matilde, assomigli alla tua mamma; non a me che sono stato solo uno stupido. A volte pensavo di volervi ancora bene, ma adesso sto provando un irragionevole rancore per te.”
“Basta, papà, basta con questo filosofare saccente e vuoto nel suo essere solo una maschera per il tuo egoismo.”
“E tu smetti di cercare una motivazione su cosa sia successo tanti anni fa. È solo il tentativo che ognuno di noi fa per trovare retrospettivamente spiegazioni semplicistiche di eventi complicati.”
“Non era questo che volevo.”
“Si, invece. Ma tu non puoi non sapere che ogni spiegazione dipende dalla validità delle premesse: una falsa premessa può portare a un risultato sbagliato e le ipotesi così acquisite spesso possono produrre conclusioni non corrette.”
“Che cosa vuoi dirmi con questo?”
“Spesso gli eventi sono creati da situazioni imprevedibili e, ciò nonostante, finiamo per convincerci che essi siano spiegabili nei modi con cui i desideri e i sogni seducono la mente e, infine, resi rassicuranti per la nostra tranquillità.”
“Ti stai di nuovo giustificando, ai tuoi occhi e a miei e, forse, a quelli della mamma.”
“È vero, sto facendo così; anche perché vorrei che nessuno avesse rimpianti.”
“Il risultato è che stai riuscendo solo a farmi piangere.”
“No Matilde, voglio solo proteggerti da me e da te stessa. Ogni storia ha la sua opacità, una sorta di scatola nera imperscrutabile. Si constatano degli eventi ma, quasi sempre, non si ha modo di comprendere con precisione cosa li ha prodotti.”
“Dunque non sei fuggito perché ti eri innamorato di un’altra donna!”
“Sembrerebbe la motivazione più ovvia, ma potrebbe non essere quella vera.”
“E qual è quella vera?”
“Non lasciare andare inutilmente la fantasia, potrebbe non esserci una vera verità.”
Il padre si alzò improvvisamente, anche se con una certa pesantezza di movimenti. Andò in una stanza adiacente e tornò con una grossa scatola di cartone, tipo quelle che contengono degli scarponi da sci.
Si sedette accanto a Matilde e sollevò il coperchio, dentro c’erano decine di fotografie, in bianco e nero e a colori e di varie dimensioni.
Le prese e, una alla volta, le passò a Matilde affinchè lei le guardasse. Molte erano paesaggi di zone inospitali, forse di regioni orientali o sudamericane. In qualcuna lui era ripreso in tenuta da viaggiatore di zone desertiche.
“Che vuol dire?” chiese Matilde.
“Dieci anni fa, ho viaggiato e camminato a lungo in queste zone, in Cile e in Perù, cercando quasi di perdermi nella speranza di scoprire di me quel che non sapevo di essere.”
“E la tua … compagna?”
“Irene? Ho scelto di scomparire, anche da lei.”
“Ma perché?”
“Probabilmente, sentiva la vita imprigionata in un ovvio rassicurante.”
“E non protestò, non soffrì anche lei?”
“Quando le fu chiaro che sarei partito e che non sarei più tornato, mi disse semplicemente: «Cui prodest?» Furono le parole che mi permisero di non sentirmi in colpa. Poi se ne andò, prima ancora che io facessi i bagagli.”
“Vuoi stimolare la mia ironia facendomi dire che sei recidivo?”
“Ma no, voglio solo mostrarti che le cose non sempre sono come sembrano.”
“Papà, io tornerò a casa stanotte stessa e dovrò fare alla mamma il resoconto del mio viaggio.”
“Sarà necessario?”
“Tu cosa ne pensi?”
“Penso che l’amore in ogni caso sia stato vero. Anche se, come spesso accade, non lo si riconosce quando lo si ha. Può finire, come tutte le cose della vita, e allora può verificarsi che il desiderio si consoli nell’ amare non una persona ma, paradossalmente, la sua assenza. Un modo, forse assurdo, con cui l’amore si trasforma e si sublima per garantire la nostra sopravvivenza.”
“E secondo te, dovrei raccontare questo filosofeggiare alla mamma? No, non sarà possibile, perché il tuo è un modo disonesto, ammantato di parole rese suadenti dalla cultura, per darle un benservito finale, fuggendo ogni responsabilità.”
Tacquero per qualche minuto, mentre il padre cercava di riporre le fotografie nella scatola in modo goffo e frettoloso, quasi vergognandosi di averle mostrate.
Matilde si sentì persa, sentì che il suo viaggio era stato inutile, nel momento in cui tutto si stava risolvendo nel riconoscimento di una situazione accettata e resa immutabile da un tempo ormai incancrenito in se stesso.
“Credo sia ora che io vada,” disse come in un soffio.
Poi: “Eppure io credo cha comprenderci resti una possibilità, se riusciremo a liberarci dei nostri egoismi e dei preconcetti nei quali ci siamo imprigionati. Spero che, un giorno, riuscirai a capire chi sei veramente, allora potrai tornare e parlarci di te.”
Arrivò a casa che ormai era notte inoltrata e la mamma già dormiva.
Preferì non svegliarla e rimandò all’indomani il resoconto del suo viaggio.
Si ritrovarono, la mattina seguente, sedute al tavolo per la colazione. In silenzio per un tempo che a Matilde sembrò interminabile.
Fu la mamma a rompere quella situazione di stallo.
“Almeno potresti dirmi chi è, anzi com’è, questa donna che …”
“Non c’è nessuna donna, mamma o, almeno, non c’è più.”
“Non capisco” le ripose.
“Sì, che capisci, e tu sapevi, probabilmente, che la compagna di papà era andata via da tempo; l’hai tenuta in vita nella tua mente affinché anche il dolore avesse una sua spiegazione ovvia e tranquillizzante, idonea a giustificare il tuo risentimento.”
“Come fai ad affermare certe cose?”
“Se lei, Irene, fosse stata lì non mi avresti inviata a verificare. Lei avrebbe capito e non mi avrebbe fatto neanche entrare; mi avrebbe rispedita al mittente facendo magari delle ironie sul tuo comportamento. E poi ti sarebbe dispiaciuto che tua figlia potesse essere trattata male.”
La madre taceva e Matilde tormentava gli anelli che portava alle dita della mano sinistra.
“Dimmi la verità, mamma, tu sapevi.”
Lei aspettò qualche secondo prima di rispondere: “Sì, ero al corrente che quella donna era andata via, ma volevo sapere se tuo padre ne è ancora innamorato.”
“Dunque mi hai inviata perché il tuo orgoglio non ti permetteva di andare di persona; il rischio di essere rifiutata ancora una volta sarebbe stato troppo per te. A maggior ragione se lui non ha più alcun rapporto sentimentale con chicchessia; meglio tentare di commuovere l’animo duro di tuo marito per mezzo di una figlia per la quale, probabilmente, lui prova ancora affetto e rimpianto; in un certo senso mi hai usata.”
“Non ero così lucida.”
“Forse no, ma tutto doveva rientrare nei canoni dell’ovvietà rassicurante: tuo marito ti aveva abbandonata perché sedotto da una sgualdrina, mentre tu eri senza colpe, succede normalmente. Ma qui, a questo punto, nessuno sa se le cose siano andate veramente così. In fondo, se papà fosse rimasto lontano da te senza motivo sarebbe stato più penoso: l’esistenza di Irene era una garanzia e tuo marito era solo uno dei tanti che si perdono nel modo più sciocco.”
“Mi attribuisci pensieri che non ho mai avuti.”
“Forse, ma tu eri ben cosciente che il tempo permette null’altro che edulcorare il ricordo di atmosfere degli anni passati; ma quelle atmosfere, concretamente, restano perdute se non si è stati capaci di coltivarle.”
“Sì, resteranno perdute,” rispose la madre con un tono di amarezza e muovendo impercettibilmente la testa in modo affermativo.
Questa volta fu Matilde a restare in silenzio, oppressa da un sentimento di colpevolezza per aver sbattuto in faccia a sua madre una verità che era rimasta nascosta per anni.
“Mamma, perdonami, non volevo ferirti, tu hai solo seguito la tendenza di uomini e donne a cercare spiegazioni semplicistiche a eventi complessi.”
La madre chinò la testa distogliendo gli occhi da quelli di sua figlia e guardando la tovaglietta sul tavolo, poi aggiunse:
“Da come parli, sembra che nessuno di noi possa avere un’anima: quella che chiamiamo così sarebbe solo l’astuzia dell’intelligenza o della stupidità.”
Matilde taceva, guardava la madre senza più rabbia e, improvvisamente, sentì solo affetto per lei. Poi disse:
“Detta così sembra vero, eppure esito ad avere un’opinione precisa al riguardo.”
“Allora, io devo pensare di aver vissuto un passato solo immaginario?”
“Non lo so, mamma, credo, però, che tu abbia capito molto di te da questo viaggio che io ho fatto a Milano. Mi avevi inviato per uno scopo diverso, pensando a un epilogo che era quello che ti faceva comodo; ma, poi, ci si rende conto che c’è sempre un imponderabile che fa in modo che le cose non vadano come avevamo supposto.”
“E adesso?” chiese la madre con un flebile tono di voce.
“Adesso devi trovare dentro di te i motivi per sopravvivere. Tuo marito non esiste più; in qualche modo il mio è stato un viaggio che ha circoscritto un mondo dove seppellirlo, forse, sono stata un’assassina.”
La mamma si alzò e si accostò alla finestra della cucina dalla quale si vedeva, poco lontano, lo scalo ferroviario.
Matilde restò ancora seduta per qualche minuto, poi la raggiunse, le cinse la vita con le braccia e appoggiò la testa sulla sua spalla.
Restarono lì immobili, a guardare i binari rilucenti al primo sole del giorno e dove un treno si muoveva lentamente uscendo dalla stazione.