ACCENTO DI PAESE
Di Federico Migliorati
Ogni volta che rimetteva piede nel paese natìo provava un’ebbrezza inusitata, che durava per alcune ore: era la gioia di ritrovare luoghi, persone, visioni a lui care, abbandonate per un tempo più o meno lungo e che, lontano, si trovavano riunite in poco spazio in alcune foto sul comodino della città di R. dove viveva.
Già da Lonato, quando il fido V., autista e ancor prima amico fraterno, lo riportava a Montichiari, ammirava estasiato la cupola del Duomo, così maestosa e imponente, il turrito profilo del castello che appariva sospeso in aria come una delle “città invisibili” di un noto scrittore ed i colli digradanti dolcemente. La Pieve no, quella non si metteva troppo in mostra, pur se visibile: meglio così, meritava di essere ammirata in tutto il suo splendore in una delle passeggiate che, già pregustava, avrebbe fatto nei giorni a seguire, lentamente, con le mani dietro la schiena ed il passo cadenzato degli anni ormai pesanti sulle spalle.
Sì, la Pieve: quanto l’aveva amata e quanto ancora l’amava quella chiesa romanica, la sua preferita, posta sul colle più alto del paese, indomita bellezza d’antico stampo, erede di una storia nella quale essa stessa si inserì per diventare a sua volta meraviglia immortale. Avvicinandola, ricordava ora che l’auto su cui viaggiava correva veloce sul rettifilo verso casa, sussultava spesso di felicità, come in preda alla sindrome di Stendhal. E i campi appena arati, con i loro colori così vividi?
Non erano una carezza al cuore quelle chiazze brune e verdi, come pennellate di un pittore, che si alternavano dal finestrino? Presagiva già nelle sere che andavano allungandosi poco a poco, nella sua casa di via Cavallotti, la lettura di libri appena acquistati ed una nuova riedizione dell’Elogio della follia: un Erasmo rivisitato alla luce di nuove interpretazioni del suo pensiero. Tomi di storia non mancavano di certo, come trattati di scienza e gli ultimi saggi di politica internazionale. Di fronte alla ricca libreria stava il pianoforte a coda, quello strumento che nacque dalla mente di un tal Cristofori e dai cui tasti si sprigionarono opere che ci rendono orgogliosi di definirci umani. Su di esso avrebbe presto riprovato la vitalità delle dita per riscoprire l’Appassionata, vibrante emozione di un genio che egli sentiva così vicino a lui. Era, quel languore che ormai lo aveva pervaso a pochi chilometri ormai dall’arrivo, un accento dell’anima che conosceva bene, una felice compagnia che ritrovava sempre, toccando la terra in cui nacque.
Accento di paese, lo chiamò in uno dei suoi libri, scritti di getto, quasi come sotto dettatura, nati dall’impulso forte di tramandare alla sua “gente” una parte di sé dopo la cristiana morte che attendeva lui come tutti. “Nessun luogo, nessuna città possedeva quell’impasto di laborioso vivere, di fiducia razionale nell’avvenire, di operosa solidarietà tra le persone come Montichiari”: si ricordava di questa frase, che alcuni suoi lontani studenti ancora oggi gli recitavano a memoria quando li ospitava per incontri fatti di ricordi e di sapienti discussioni. Ai giovani, non poteva dimenticarlo, dedicò gran parte della sua azione politica e del suo impegno civile: la società in cui era inserito poteva e doveva ricevere una continua spinta verso il miglioramento solo se a garantirla erano i ragazzi di oggi. Ne era profondamente convinto: lo vedeva dal sorriso dei suoi nipoti, i cui ideali di costruire un futuro nobile d’animo non perdevano forza solo per le brutture che incontravano sul loro cammino.
Aprendo il portone di casa fu colto dal profumo di ciclamini: un regalo di benvenuto, ne era certo, della nipote Carla, servizievole segretaria e nume del focolare. Era finalmente a Montichiari: una felicità antica lo abbracciò, mentre il tramonto, alle sue spalle, gli regalava l’ultimo respiro del giorno morente, l’ultimo accento di paese prima della silente notte.
A Mario Pedini, intellettuale e politico
(Montichiari, 1918 – Roma, 2003)