Di Vladimir D’Amora
Dire sí, a ogni cosí.
Sí, senza alcuna dimensione nota, senza contatto: senza alcuna dimensione ignota: senza il rischio di trovarsi, nel perdersi: perdendo un’àncora che sia la mano morta filamentosamente di chi ci sfiora in un treno sul sedile prossimo nella lontana stanza d’alito, che disturba: che ci fa umano – sentirlo – umano – patirlo – un languore.
Ogni nostalgia… Fatta per partire, per tornare, restare nel mezzo dentro, nel mezzo delle vite, delle preoccupazioni montate come angeli distrutti dal fuoco, dalla memoria di un istante ripetutamente smentito, assicurato. O immaginando…
La tua digestione ammalata di presenza a sé: e hai fame: e mangio male: corro e disperdo la cura di me nella cura di altri: di chi mi si rivolge pregando un protocollo inspiegabile che venga soddisfatto come queste immagini disperate, e che girano.
Come le immagini; quelle che ci assediano benevole lungo una via di disperazione che lavora, e soffre la sua pena che calcola ogni centesimo di tempo non più, mai per potersi liberare dall’affronto spazioso del potere maschio e femmina che si dipingono il volto del ricevente, del consigliante, del suadente stronzo di un turno operaio, e gli operai oggi sono senza una consapevolezza di punto di vista, di lotta, di lavoro: solo la percezione, la gerarchizzazione, la operazione.
Vende la sua mansione di schiavo a chi prometta, alla cosa della promessa senza più un giglio di volto: o di queste lenzuola: come un titolo poco animale… Le mie lenzuola.
A dire: Voi, che siete i venduti che si vendono il corpo come se fosse un’anima di frate diavolo: e gli amici con quella luce persa nell’inferiorità senza visione: e gli amici di una pelle negrissima con accento tono sillaba di famiglia che, qualche euro, lo merita. A farsi accoglienza.
A prodursi cosa infinita di una non vita che non vive proprio e è senza una memoria: senza possibile di non potere: senza possibile di una distanza dalla morte: dall’impossibile che fa non nascere: spuntare come i fiori che si allenano a comprare i sorrisi: e altri fiori.
Quegli amici scordati per non ricevere lamenti e urli di animali comprati, verbi affittati in uno spazio minuscolo, con parco umano, lager di verde. Dove i bambini e i vecchi e gli stranieri e le massaie colorate di niente giocano su sabbie disposte come si dispongono i debiti con i luoghi, e nel posto della menzogna, che è vera. Vera misura.
Di una parcella di questa, irricevibile: confessione, e qui. Mentre è stanco: e sei stancata da me: o coso suggestionato e nostro fratello… Sorella femminile; in un genere reale.
E’ il solo: convocato amico: come grammaticale evento: ma fermo: poggiata al muro la sorella: il muro sarà dimenticato dalla città per la città, quando i fratelli con le sorelle di scorta chiederanno senza lingua, senza poesia: senza pubblicità e politica dell’amicizia neppure un vuoto di contatto ma di non esistere: di non scordare. Questa voce nel ritmo di un battito di respiro di formica. Che respira.
Che si dice respiri sotto, la formica, sotto dove il muto albeggia senza un testimone adiacente volto a sud: al popolo misurato con la regola della differenza: e quanti figli!
Quanti pochi figli ho generato per l’oggi: per la stima di chi compare vestito d’osso industriale: utilissimo: estesissimo abito di una scossa di tosse secchissima: inaugurante. E della determinazione elementale del paradosso: tu stringilo: rigiralo: fallo tutto tuo: fallo di un cazzo circonciso nella sua natura fuori dalla relazione.
Fuori da questa storia che c’incatena ai ricordi labili. E quali cazzi: quali ricordi!
Tu: uno: tu dici belli: i ricordi perché devi dirlo, lo devi al dire. Come i compromessi di una madre che non piange, che non veda, che non respira, se l’elettrico finire a una sabbia d’allenamento di ossa e di pensieri è una foglia, è una riga.
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L’immagine di copertina è The builders, di Jacob Lawrence