Due poeti francesi reinterpretati da De Andrè
Di Graziella Enna
Articolo originariamente apparso sul numero di febbraio della rivista Euterpe
De Andrè nel 1996 curò la prefazione della raccolta delle poesie di François Villon (Feltrinelli, a cura di Luigi De Nardis), e, all’uopo, scrisse una lettera fittizia al poeta in cui si dichiara suo debitore per avergli ispirato il brano “La ballata degli impiccati”, contenuta nell’album del 1968 “Tutti morimmo a stento”. Vi espone innanzitutto il motivo occasionale che lo spinse a comporre la sua canzone: la lettura di un articolo di giornale riguardante la soddisfazione, espressa da parte delle autorità, per un’esecuzione avvenuta in Sudafrica nel 1963, tramite impiccagione, di otto presunti malviventi di colore in un contesto dominato dall’apartheid. L’indignazione per il fatto in sé e la crudele descrizione dell’agonia dei condannati, descritta con macabri dettagli dal compilatore dell’articolo, lo indussero a riallacciarsi alla celebre “Ballade des pendues”, nota come “Epitaffio di Villon”, pubblicata nel 1489, a cui egli conferisce un altro tono e una diversa cifra. Nella medesima lettera, accenna sommariamente alla figura di Villon, poeta delinquente sui generis, poète maudit ante litteram, che del resto è l’immagine che conosciamo di lui: un irregolare dalla vita picaresca, che preferì restare ai margini della società per denunciarne le difficoltà e i disagi, in una Francia appena uscita dalla guerra dei Cento Anni, popolata di malfattori, borghesi speculatori senza scrupoli che affamavano le masse popolari, afflitta da epidemie, lacerata da delitti, miserie, crisi di valori, forieri di un senso di smarrimento e di precarietà dell’esistenza. Di questo malessere si fa interprete Villon, inquieto, gaudente, dissacratore degli stessi valori cui è allo stesso tempo saldamente ancorato, non ultimo quello della religione, che è un elemento fondamentale nel componimento “La ballade des pendus”, insieme con un’umanissima partecipazione al dolore e alle miserie umane.
La lirica di Villon si configura come un’invocazione suprema dei morti sulla forca rivolta a tutti gli uomini ancora vivi e che contiene una preghiera: tutte le strofe terminano, infatti, con le stesse parole: “Ma Dio pregate che assolva tutti noi!” Emerge la realistica descrizione dei corpi martoriati dagli agenti atmosferici e dagli uccelli, che ha lo scopo di suscitare empatia e di sancire, tramite un pathos tragico, l’idea che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla morte. Nella prima strofa le parole “fratelli umani” sono emblematiche per sottolineare il destino comune degli esseri umani e soprattutto hanno lo scopo di evocare il senso di umana pietà che si dovrebbe nutrire, di conseguenza, da parte di tutti. Perciò Villon in modo anticonvenzionale non usa un tono di denuncia per i morti “par justice”, bensì si identifica in loro, i più deboli, vittime proprio di quella giustizia che mostra talvolta il suo volto più disumano.
De Andrè, pur rifacendosi nel titolo alla ballata di Villon, la reinterpreta, inserendola in un album tematico popolato di figure di diseredati: impiccati, drogati, derelitti, violati, emarginati, su cui aleggia la morte prima ancora che fisica, psicologica e morale. Perciò la “Ballata degli impiccati” presenta dei connotati differenti dall’invocazione e dalla preghiera dei “pendus” di Villon, assumendo, invece, i toni di un’accusa da parte dei condannati, animati dall’ odio e dal doloroso rancore nei confronti di una società che li ha esclusi, a cui ora si rivolge per rimarcare la sorte toccata a loro “per il male fatto in un’ora”. Non muoiono recitando una preghiera ma, con un’ultima bestemmia sulla bocca, vedono allontanarsi la dolce luce del giorno e precipitano nell’abisso orrido della morte senza il conforto del perdono. Ma le loro parole si fanno ancora più aspre e male auguranti nei confronti di coloro che non comprendono la loro sventura rendono palese il tono di una inquietante maledizione, (ad iniziare dalla quarta strofa), rivolta a coloro che li sbeffeggiano e deridono crudelmente la loro sconfitta sul piano esistenziale: conoscano anche loro la stretta del nodo alla gola; allo stesso modo, chi si è occupato di gettar loro la terra addosso, possa giungere alla pietra tombale stravolto; le donne che nascondono in modo malcelato il disagio di doverli ricordare, siano colpite dall’usura del tempo che sciupi ogni notte il loro volto. Insomma nessuno può ritenersi immune dal dolore degli impiccati “che ha l’odore del sangue rappreso”.
Ballade des pendus (Villon)
Fratelli umani, che vivete ancora,
Non siate contro noi duri di cuore,
Ché, se pietà di nostra sorte avrete,
Più largo sarà Dio del suo perdono.
Qui appesi ci vedete, cinque, sei.
La carne, che troppo abbiam nutrita,
Da tempo è divorata e imputridita.
Le nostra ossa saran presto cenere.
Della sventura nostra non ridete,
Ma Dio pregate che assolva tutti noi!
Se vi chiamiam fratelli, disdegno
Non ne abbiate, se pure per giustizia
Fummo uccisi. Voi sapete però
Che di sagacia non tutti son forniti.
Per noi , che trapassammo ormai
Pregate il figlio della Vergine Maria
Che non s’inaridisca la sua grazia,
Ma dalla furia infernale ci preservi.
Morti noi siamo, ingiuria non ci fate,
Ma Dio pregate che assolva tutti noi!
La pioggia ci ha lavato e dilavato
E il sole resi bruni e rinsecchiti.
Le gazze e i corvi gli occhi ci han cavato
E strappato la barba e fin le ciglia.
Non un solo momento abbiamo pace.
Di qua, di là, come si muta, il vento
A suo piacer ci mena senza posa.
Beccati degli uccelli più che anelli.
Di nostra compagnia non fate parte!
Ma Dio pregate che assolva tutti noi!
Gesù Signore, che su tutti hai potere,
Fa’ che l’Inferno non ci abbia in suo volere:
Non vogliamo con lui nulla a che fare.
Uomini, non c’è qui scherzo né celia.
Ma Dio pregate che assolva tutti noi!
La Ballata degli impiccati (De André)
Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce.
L’urlo travolse il sole
l’aria divenne stretta
cristalli di parole
l’ultima bestemmia detta.
Prima che fosse finita
ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un’ora.
Poi scivolammo nel gelo
di una morte senza abbandono
recitando l’antico credo
di chi muore senza perdono.
Chi derise la nostra sconfitta
e l’estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.
Chi la terra ci sparse sull’ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch’egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino.
La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria.
Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.
I versi di De Andrè, sono privi di ogni riferimento spazio-temporale, duri, scabri, rabbiosamente rancorosi, mentre quelli di Villon, pur nel loro crudo realismo descrittivo, palesano un messaggio di speranza tramite la preghiera e l’umana solidarietà del prossimo alle proprie sventure. Ma sarebbe riduttivo e non veritiero affermare che De Andrè citi Villon solo in questa canzone, sono infatti tanti i versi rivisitati dal cantautore genovese nella sua vastissima produzione. Si può nominare, tra le tante, la canzone “Valzer per un amore”, tratto dalla raccolta “Nuvole barocche” del 1969, che riprende “La ballata alla sua amica” (1461) del poeta francese. Ma, particolare dettaglio che non sfugge, è l’associazione ad un’altra lirica francese, di Pierre de Ronsard , scritta nel del 1578, “Quand vous serez bien vieille”: l’impressione finale della canzone è quella di una rielaborazione di entrambi i modelli con l’uso di una sapiente poetica allusiva in cui il genovese è certamente abilissimo ed esperto, ovvero la capacità di citare il modello e interpretarlo in modo del tutto personale.
“Quand vous serez bien vieille” Ronsard
«Quando Vecchia sarete, la sera, alla candela,
seduta presso il fuoco, dipanando e filando,
ricanterete le mie poesie, meravigliando:
Ronsard mi celebrava al tempo ch’ero bella.
Serva allor non avrete ch’ascolti tal novella,
vinta dalla fatica già mezzo sonnecchiando,
ch’al suono del mio nome non apra gli occhi alquanto,
e lodi il vostro nome ch’ebbe sì buona stella.
Io sarò sotto terra, spirto tra ignudi spirti,
prenderò il mio riposo sotto l’ombre dei mirti.
Voi presso il focolare una vecchia incurvita,
l’amor mio e ‘l fiero sprezzo vostro rimpiangerete,
Vivete, date ascolto, diman non attendete:
cogliete fin da oggi le rose della vita.»
“Ballata alla sua amica” Villon
Tempo verrà che farà disseccare,
ingiallire, appassire il vostro fiore;
io me ne riderei, se masticare
potessi allor; ma nol folli parole:
vecchio sarò, voi brutta ed incolore.
Bevete fin che l’acqua potrà scorrere; […]
De Andre’ “Valzer per un amore”
Quando carica d’anni e di castità
Tra i ricordi e le illusioni
Del bel tempo che non ritornerà
Troverai le mie canzoni
Nel sentirle ti meraviglierai
Che qualcuno abbia lodato
Le bellezze che allor più non avrai
E che avesti nel tempo passato
Ma non ti servirà il ricordo
Non ti servirà
Che per piangere il tuo rifiuto
Del mio amore che non tornerà
Ma non ti servirà più a niente
Non ti servirà
Che per piangere sui tuoi occhi
Che nessuno più canterà
Ma non ti servirà più a niente
Non ti servirà
Che per piangere sui tuoi occhi
Che nessuno più canterà
Vola il tempo lo sai che vola e va
Forse non ce ne accorgiamo
Ma più ancora del tempo che non ha età
Siamo noi che ce ne andiamo
E per questo ti dico amore, amor
Io t’attenderò ogni sera
Ma tu vieni non aspettare ancor
Vieni adesso finché è primavera
Risulta fin troppo evidente, tuttavia, che De Andrè abbia voluto consacrare in questo testo, un topos letterario, retaggio del mondo classico greco e latino, che informa la letteratura occidentale di ogni tempo: la fugacità del tempo, la caducità delle vicende umane e l’invito a cogliere la rosa prima che appassisca, tema menzionato esplicitamente da entrambi i poeti francesi e presente nella tradizione letteraria umanistica e tardo rinascimentale italiana. Basti pensare alla lirica di Poliziano “I’mi trovai fanciulle un bel mattino” (1480), in cui leggiamo:
Quando la rosa ogni suo’ foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.
Stesso motivo è presente in un passo dell’ottava 58 del primo libro dell’Orlando Furioso di Ariosto (1532) e nell’ottava XV del XVI canto delle Gerusalemme Liberata di Tasso (1575):
I
Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
XV
Cosi’ trapassa al trapassar d’un giorno
de la vita mortale il fiore e ‘l verde;
ne’ perché faccia indietro april ritorno,
si rinfiora ella mai, ne’ si rinverde.
Cogliam la rosa in su ‘l mattino adorno
di questo di’, che tosto il seren perde;
cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando.”
In conclusione, in queste due canzoni di De Andrè, così diverse tra loro, “La ballata degli impiccati” e “Valzer per un amore”, sono presenti due temi predominanti nella poesia di Villon, cioè il senso di precarietà della vita, il rimpianto del tempo perduto e non goduto ma soprattutto la consapevolezza che la vita si può perdere per un’azione sbagliata, un gesto sconsiderato. E non a caso, De Andrè ha accostato Ronsard a Villon in “Valzer per un amore”: non solo per il tema trattato, a mio avviso, ma per manifestare la volontà di unire un poeta anticonformista a uno dotto, classicista dalla vita dedita all’otium letterario, osannato da personaggi potenti, fondatore di quel prestigioso cenacolo noto come “La Pléiade”, per dimostrare che la poesia possiede la stessa dignità e lo stesso valore svincolati da fama, successo, appartenenza ad un alto lignaggio o dall’ indole dell’artista. E’ proprio l’attitudine a trattare un mondo multiforme ed eterogeneo, popolato da individui di diversa estrazione sociale spesso emarginati e colpiti da sventure, l’elemento che unisce il carattere ribelle ed anticonformista dell’artista genovese al poeta malfattore. E, in questo modo, De Andrè conclude la sua epistola fittizia a lui indirizzata:
“Ma ti lascio con la convinzione, caro François, che quel Dio che tanto teneramente hai saputo invocare tra una rissa, una taverna e un bordello, si sia comportato meglio degli accademici compilatori del catalogo della Pléiade: e se proprio come loro non ha voluto ricordare i tuoi versi, sicuramente non ha dimenticato il tuo volto”.
Foto di copertina da rollingstone.it