La normalità del male
Di Paolo Massimo Rossi
Il quotidiano fissato nel momento in cui sembra di poter derogare dall’acquiescenza all’abitudine torpida del vivere e che, improvvisamente, si ritrova in una prigione che della normalità del male fa il proprio rifugio. Le azioni dei protagonisti, per quanto ignobili possano sembrare a una morale illusoriamente edulcorante ed edulcorata, si adagiano in un cinismo che l’autrice dei racconti osserva senza giudicare. Semplicemente le lascia scorrere nei racconti, permettendogli di avere come unico “in sé” il diritto a difendere un illusorio e ripiegato benessere anche attraverso – e malgrado – un male da riversare all’esterno. Dunque un esercizio di strazianti soprusi che sono sì fuga dalla vita, ma che diventano espressione di una disidentità.
Una modalità che, esercitata narrativamente in una zona d’ombra letteraria, diventa, nella scrittura di Geraldine Mayer, una condizione essenziale per giustificare l’esistenza asetticamente squallida dei protagonisti. I quali, nel mentre che sembrano agire – almeno all’occhio del lettore – guidati da un atteggiamento di ribellione, in realtà accettano di continuare a essere quel “nessuno” che probabilmente era stato cifra irrisolta della loro esistenza, ma anche culla, finto benessere e, infine, male aleggiante. Uno stato che potrà forse giustificarli per le ferite che hanno inflitto a chi li ha accolti o accuditi per una vita, come anche a se stessi, ma che è soprattutto condizione per poter ignorare il concetto stesso di dolore e per restare in pace in una acritica passività. Dunque quella disidentità – che finisce per ignorare il lettore illuso e magari speranzoso di una soluzione di etica ritrovata – afferma il suo diritto a conservarsi, e questo nel momento in cui qualifica i protagonisti nella deriva di una apparente irrazionalità che i racconti rinchiudono in una sorta di monade avulsa dai rapporti umani. Modalità di agire che separano quei protagonisti dal lettore/giudice, esattamente nel momento in cui essi, falsamente innocenti, diventano membri senza qualità dell’anonima massa di uomini e donne normali nella loro indifferenza. E in tutto questo, Geraldine Mayer si muove avendo come scopo e guida la letteratura e non il sentimentalismo partecipativo del lettore, realizzando un florilegio di racconti che parlano dell’umanità o, almeno, della parte più nascosta e nascondibile di questa. Vien da chiedersi, leggendo, se sia questo modo di essere quello più vero. Quello che convenzionalismi, educazione razionale e – anche e purtroppo – ipocrisia di circostanza nascondono allo sguardo di chi non vuol vedere o di chi, pur vedendo, conserva il proprio sentire immune dal languore patetico della colpa. Ma, infine, non è questo il compito vero della letteratura? Cioè raccontare onestamente senza fini secondari quali il commuovere attraverso l’enfasi sentimentale costruita o, peggio, con un occhio al mercato?
Scritture
Racconti
I Quaderni del Bardo di Stefano Donno Editore
2019
108 p., brossura