L’eresia dell’intelligenza per una letteratura contro la mafia e il potere
Tratto da Sguardi dal novecento, di Nicola Vacca, Galaad Edizioni
Leonardo Sciascia, scomparso nell’autunno del 1989, è stato un intellettuale puro che credeva nell’eresia e scriveva le sue opere con il convincimento di dare fastidio.
Ogni suo libro è diventato un caso. Nelle sue invettive colpiva sempre nel segno, perché lo scrittore siciliano non è stato mai disponibile al compromesso e all’opportunismo.
Matteo Collura ha giustamente osservato che Sciascia scrittore è un eretico con il culto dell’opposizione, un anticonformista delle idee sempre pronto a dare battaglia, instancabile combattente in un Paese di trasformisti in cui tutti sono pronti a salire sul carro del vincitore.
Leonardo Sciascia i suoi libri li scriveva d’estate, in campagna: tre – quattro cartelle ogni mattina, direttamente con la mitica Olivetti Lettera 22. Con calma e lentezza aveva sempre davanti a sé gli appunti raccolti nei mesi di riflessione che avevano preceduto la stesura. Dopo aver consegnato di persona il dattiloscritto al suo editore, scrupolosamente procedeva alla correzione delle bozze. Gli errori tipografici erano la sua ossessione. Questo era l’ultimo gesto che lo teneva avvinto alla sua creazione. Infine il rapporto si allentava, sino all’oblio.
Questa preziosa curiosità legata al laboratorio di uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano è utile per comprendere tutti gli aspetti della dimensione intellettuale di Leonardo Sciascia e soprattutto del percorso della sua scrittura.
L’opera e il pensiero di Leonardo Sciascia, scrittore libertario, fanno ancora discutere. Recentemente è stata messa in discussione la sua attualità. Possiamo ritenere esaurita la funzione civile degli scritti dell’autore di Todo modo? Da eretico, il grande scrittore siciliano è una testimonianza di impegno civile e di ribellione contro i conformismi e i moralismi. Ha pagato con una solitudine pesante questo suo atteggiamento inattuale. Come non ricordare l’ostracismo e le numerose critiche da parte di quella cultura che ama definirsi progressista in occasione della polemica del grande scrittore siciliano sui professionisti dell’antimafia.
Da autorevole polemista non amò mai l’arte ibrida del compromesso. Durante il rapimento di Aldo Moro non risparmiò critiche pungenti alle istituzioni. Nel lucido saggio L’affaire Moro, pubblicato da Sellerio, indignato scriveva: «Vale la pena difendere questo nostro Stato?». Sciascia, addolorato dal rapimento dello statista democristiano, è arrivato alla conclusione che questo Stato fosse affetto da gravissime difficoltà istituzionali.
Lo scrittore di Racalmuto è stato un precursore dei nostri tempi: il primo a denunciare le aberrazioni del sistema giudiziario, intuendo, con largo anticipo e lucida intelligenza, i drammatici esiti della giustizia politica.
Un capitolo esemplare della sua vis polemica è il famoso articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 sui professionisti dell’antimafia. Lo scrittore se la prese con chi nella magistratura usava la lotta alla mafia come strumento di potere. Sciascia non fu per niente tenero con il Coordinamento antimafia, che definì «una frangia fanatica e stupida».
La lotta alla mafia non può essere concepita come uno strumento di una fazione per il conseguimento di un potere incontrastato e incontrastabile, né questo nobile principio può essere strumentalizzato per raggiungere meri fini carrieristici.
Basta dare un’occhiata alle trattative tra lo Stato e Cosa nostra di cui si sta discutendo oggi, per capire come i professionisti dell’antimafia, che lo scrittore polemicamente aveva smascherato, sono ancora in servizio permanente effettivo.
Sciascia aveva la grande capacità di intuire verità scomode di estrema attualità. Egli è stato uno dei primi a denunciare le disfunzioni dell’amministrazione giudiziaria e lo strapotere della casta dei magistrati. Grande sostenitore dello Stato di diritto e strenuo sostenitore della giustizia giusta, dopo le aberrazioni giustizialiste del caso Tortora, Sciascia riteneva vergognoso che un magistrato nel nostro ordinamento non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera, che automaticamente percorrerà fino al vertice.
Il tema della giustizia giusta, di cui fu divulgatore, è stato un punto fermo soprattutto nella sua instancabile attività di polemista. Alle sue pagine sul garantismo – grande lezione di civiltà – oggi siamo costretti a guardare dopo gli anni equivoci della stagione giustizialista. «Tutto è legato, per me ,al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo». A queste parole egli pensava quando sul Corriere sosteneva l’innocenza di Enzo Tortora.
Molto tempo prima che scoppiasse Tangentopoli – siamo nel 1987- Sciascia scriveva pagine memorabili in difesa dello Stato di diritto, avendo il coraggio di denunciare le deviazioni ideologiche del sistema giudiziario. «Se al simbolo della giustizia- osservava da autentico veggente- si sostituisse quello delle manette, saremmo perduti irrimediabilmente, come nemmeno il fascismo è riuscito. E si parla tanto di manette, oggi, tante se ne vedono sui giornali o sui teleschermi: oggetti che magari saranno necessari ma ciò non toglie che siano sgradevoli a vedersi e quando simbolicamente agitate sono ripugnanti». Sciascia stigmatizzò i pericoli reali della giustizia spettacolo, di cui la cultura del tintinnio delle manette è stata negli anni novanta la sua evidente manifestazione.
Anche in questo è stato profeta. Qualche anno dopo è arrivata la via giudiziaria alla politica con i processi sommari e il tintinnio delle manette. Sciagure che hanno minato alle sue fondamenta lo Stato di diritto, che già lo scrittore siciliano vedeva minacciato e compromesso.
Leonardo Sciascia, nel suo impegno politico letterario e civile, resta una guida intellettuale per il suo anticonformismo irriverente che gli costò accuse anche dai suoi vecchi amici della sinistra.
Ma l’autore del Giorno della civetta non amava il mondo dei chierici della letteratura che si prostituiscono al potere.
Si è sempre schierato dalla parte degli infedeli e degli eretici che sanno vedere oltre la falsificazione della storia e della realtà.
Il modo migliore per rendere omaggio alla sua caratura morale intellettuale è quello di riconoscergli il ruolo indiscusso di intellettuale scomodo che non rinunciava alla ragione per raggiungere la verità.
A futura memoria, restano agli atti le sue argute intuizioni sulle contraddizioni culturali, morali e politiche del nostro Paese.
Sciascia ci piace pensarlo come un uomo in rivolta che, per amore del vero e della giustizia, ha sopportato la solitudine che è riservata ai disturbatori e agli incomodi.
Nicola Vacca