XXX canto del Purgatorio: Dante incontra Beatrice nel Paradiso terrestre.
Di Graziella Enna
Dante nella Vita Nuova, con una frase sibillina quanto mai eloquente, aveva preannunciato di essere in procinto di scrivere su Beatrice “quel che mai fue detto di alcuna”, ovvero la stesura della Commedia, perciò il lettore si aspetta un incontro epico tra il poeta e la celestiale creatura, colei con cui Dante supera la visione stilnovistica della donna vista come dono miracoloso di Dio in terra e la vede come tramite che innalza l’uomo sino a Dio. Tale incontro tanto bramato da Dante e atteso con sospensione dal lettore avviene appunto nella sommità del regno della purificazione. Dante durante il suo viaggio ultraterreno, spesso è afflitto da dubbi e perplessità che Virgilio di volta in volta cerca di sciogliere, ma la ragione, che egli incarna, può dipanare solo in parte i grovigli di natura teologica che si affacciano alla mente di Dante e dissipare ogni sua perplessità. Sarà solo Beatrice, che allegoricamente rappresenta la scienza teologica ad avvicinare Dante alle verità di fede. Nei vv. 46-48 del VI canto del Purgatorio Virgilio, (dopo una spiegazione di carattere dottrinale, da parte sua forse ritenuta poco esaustiva), pronuncia queste parole:
“Non so se ‘ntendi, dico di Beatrice:
Tu la vedrai di sopra in su la vetta
di questo monte, ridere e felice”
E infatti nel XXX canto avviene finalmente il fatidico incontro. Dopo che Dante ha assistito allo spettacolare corteo di figure simboliche che accompagnano il carro trionfale della Chiesa, (descritto in modo dettagliato e mirabile nel canto precedente), vede la processione arrestarsi e uno dei ventiquattro anziani che rappresentano i libri dell’Antico Testamento, come ispirato dal cielo, per tre volte pronuncia un versetto del Cantico dei Cantici:
“Veni, sponsa de Libano” 11
in cui la parola sponsa è interpretata come la Chiesa, sposa di Cristo, ma in questo caso, essendo essa simboleggiata dal carro, l’invocazione è diretta a Beatrice che rappresenta la teologia. Del resto Dante anche nel Convivio, secondo l’uso medievale, interpreta la sponsa come scienza divina. I numerosissimi angeli sul carro divino, alla voce del vecchio venerando, intonano un canto:
Tutti dicean: ’Benedictus qui venis!’,19
e fior gittando e di sopra e dintorno,
’Manibus, oh, date lilïa plenis!’
Benedictus qui venis sono le parole con cui venne salutato Gesù al suo ingresso a Gerusalemme, ma in questo punto, nonostante il genere maschile atto a conservare la formula liturgica originaria, sono rivolte a Beatrice, mentre “manibus, oh, date lilia plenis” sono una citazione di un passo virgiliano contenuto nel VI canto dell’Eneide e pronunciate da Anchise, in lode di Marcello, quando egli incontra Enea negli Inferi e gli mostra la gloria futura di Roma. Dante ancora una volta dà prova della capacità di effettuare il sincretismo tra mondo classico e cristiano.
E’ l’alba quando il carro si arresta: Dante vede la parte orientale del cielo rosata, il sole sorgere velato, temperato dai vapori nel cielo sereno, tanto che lo sguardo poteva sostenerne la vista e, in un tripudio di cori angelici e sotto una pioggia di petali di fiori, gli appare finalmente la donna:
“così dentro una nuvola di fiori 28
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
Sovra candido vel cinta d’uliva 31
Donna m’apparve, sotto verde manto
Vestita di color di fiamma viva”.
E qui di nuovo entra in gioco l’interpretazione figurale, perciò ella non è più
la giovinetta che ispirava l’amore nell’animo del poeta ma diventa
l’adempimento di quella figura terrena, cioè incarna la Teologia e, per questo,
i colori delle sue vesti sono emblematici: il bianco del velo simboleggia la
fede; il verde del manto la speranza; il rosso della veste la carità, ergo
tutte le virtù teologali che si sommano poi alla sapienza simboleggiata
dall’ulivo, pianta sacra a Minerva. Sono evidenti i richiami a due passi
dell’opera giovanile “Vita Nuova”: uno quando il Poeta incontra Beatrice per la
prima volta, “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno,
cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia”nel
cap.II; l’altro quando la donna
gli appare in sogno portata in cielo da una moltitudine di angeli nel XXIII
capitolo: “pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in
suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che
questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea
udire che fossero queste: Osanna in excelsis;
ed altro non mi parea udire”[…] e pareami che donne la covrissero, cioè la
sua testa, con uno bianco velo”.
Dante, a questa vista, dopo tanto tempo da quando la donna amatissima era morta, prova gli stessi sentimenti di una volta: tremore e stupore, il suo animo è affranto, ci ricorda stilemi cavalcantiani, l’amore come forza devastante che pervade lo spirito, fiaccandolo. In questo turbinio di emozioni, Dante cerca sostegno in Virgilio e utilizza la bellissima similitudine dell’ansia di un bimbo che corre dalla mamma quando ha paura o è afflitto.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto, 36
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza. 39
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse, 42
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quand’elli è afflitto,
E poi si volta con lo sguardo smarrito per dire a Virgilio:
“Meno che dramma 46
di sangue m’e’ rimaso che non tremi:
Conosco i segni dell’antica fiamma”
parole che esprimono gli effetti dell’amore che sconvolge l’animo: per
riconoscenza verso il maestro, si serve del celebre verso virgiliano
pronunciato nell’Eneide da Didone conscia di essere innamorata di Enea (IV
vv.23 “Adgnosco veteris vestigia flammae”). Per indicare l’entità della sua
emozione si serve di un termine come dramma, unità di misura monetaria, che
indica una minima quantità, infatti neppure una goccia del suo sangue smette di
tremare.
Amara sorpresa, Dante si volta e Virgilio e’ sparito, la dolce guida , il dolce padre, il suo salvatore, il tutto espresso con un’accorata anafora in cui ripete il suo nome per indicare l’affetto e la venerazione che nutre mentre piange l’abbandono del maestro. Nemmeno tutte le delizie del paradiso terrestre perdute da Eva poterono impedire che le sue guance tornassero scure per le lacrime, come al suo ingresso nel secondo regno.
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’ mi; 51
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre. 54
La scomparsa di Virgilio non avviene per il motivo fin troppo ovvio del suo paganesimo, bensì per il fatto che egli allegoricamente e’ il simbolo della ragione che non può più bastare per penetrare il mistero di Dio, per il quale occorre una scienza superiore, la Teologia, appunto. E, mentre Dante piange desolato e in preda ad un inconsolabile scoramento, per la prima volta nel poema viene pronunciato il suo nome da Beatrice:
“Dante, perché Virgilio se ne vada, 55
Non pianger anco, non pianger ancora;
Che pianger ti conven per altra spada”.
Ci saremmo aspettati un’ accoglienza più affettuosa e riguardevole, invece Beatrice appare regalmente fredda e proterva e come una madre che redarguisce il proprio figlio e gli dice che dovrà piangere per ben altri dolori, non per la scomparsa di Virgilio, ma i suoi rimproveri sono appena iniziati. Dante sentendo il suo nome, si volta e vede la donna che poco prima gli era apparsa velata nella nube di fiori gettata dagli angeli, sollevare gli occhi verso di lui di qua dal fiumicello. Mantenendo un contegno austero e altero come chi sta per pronunciare parole più severe dice:
“Guardaci ben! ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui e’ l’uom felice?” 75
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte. 78
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba. 81
Quel verbo “degnasti” sembra quasi suonare alle nostre orecchie come
un arrivo tardivo o indegno in quel luogo in cui risiede la vera felicità
dell’uomo. Il Poeta abbassa gli occhi verso le acque limpide del rio e
rispecchiandosi in esso, prova vergogna e li distoglie: Beatrice gli appare
severa come una madre sembra tale al figlio perché l’affetto materno durante i rimproveri sa di amaro.
Gli angeli intorno intonano un salmo in cui il peccatore esprime il proprio pentimento e la fiducia in Dio, con il quale mostrano compassione per il poeta e ne giustificano l’ascesa al monte.
Ella si tacque; e li angeli cantaro 82
di sùbito ’In te, Domine, speravi’;
ma oltre ’pedes meos’ non passaro.
Egli sente il gelo del cuore dopo il rimprovero di Beatrice e avverte l’empatica partecipazione degli angeli al suo dolore: utilizza la similitudine delle nevi congelate sui rilievi appenninici che si sciolgono ai soffi dei venti più miti così come l’irrigidimento del suo animo si scioglie al canto degli angeli e si trasforma in calde lacrime che inondano il suo volto. (vv.85-102). La donna non si lascia affatto impietosire dalle lacrime del poeta e, dopo aver ammonito gli angeli, continua il suo discorso perché il pentimento di Dante sia commisurato al peccato commesso.
“Voi vigilate ne l’etterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie; 105
onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d’una misura. 108
Beatrice inizia un discorso in cui parla dell’influenza degli astri alla nascita e della grazia divina che indirizzano ogni creatura verso un fine ben preciso: Dante avrebbe avuto elevatissime potenzialità date le sue predisposizioni naturali, ma non le ha sfruttate bene, come un terreno fertile diviene sterile e selvaggio se vengono usati semi cattivi o non viene coltivato.
Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne, 111
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine, 114
questi fu tal ne la sua vita nova
virtüalmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova. 117
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’elli ha più di buon vigor terrestro.
Beatrice ripercorre le tappe della formazione di Dante, per qualche tempo ella l’aveva mantenuto sulla retta via con la sua presenza, conducendolo sulla via della rettitudine morale, ma quando passa dalla vita corporale a quella spirituale è il momento in cui egli aveva abbandonato la Teologia preferendole la filosofia (la donna gentile di cui ci parla nella Vita Nuova), segnando l’inizio del suo traviamento spirituale e della sua perdizione. Dante era caduto così in basso che tutti i mezzi erano insufficienti per la sua salvezza e si rese necessaria la discesa di Beatrice al Limbo, il soccorso di Virgilio, grazie al quale il Poeta intraprende la discesa-‘ascesa nei regni dell’oltretomba. Dante infrangerebbe la volontà di dio se passasse il Letè senza un adeguato pentimento accompagnato da molto pianto. Perciò alla fine del canto, Beatrice quasi giustificandosi per la sua durezza, ribadisce la necessità assoluta dell’espiazione.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto. 123
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui. 126
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita; 129
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera. 132
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse! 135
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti. 138
Per questo visitai l’uscio d’i morti,
e a colui che l’ ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti. 141
Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto 144
di pentimento che lagrime spanda”.
Dante si deve dunque pentire ancora e deve completare quel processo di purificazione che avverrà con diversi rituali proprio nel Paradiso Terrestre. E’ evidente che Beatrice rappresenti la coscienza di Dante, la sua consapevolezza di essere ancora un peccatore, ma in nessun altro punto il Poeta ci appare così fragile, solo, vulnerabile ed umano da indurci a nutrire solidarietà e compartecipazione nei suoi confronti.