Nacqui a Viterbo molti lustri fa. Sposatami con un diplomatico, ho girato una buona parte di mondo per scegliere poi di ritirarmi a Tortora, il primo paese della Calabria. Professionalmente sono un medico omeopata, iridologa ed esperta in Fiori di Bach. Da quando mi ricordo sono stata una grande lettrice e, nell'adolescenza, cominciai ad avere diari in cui buttavo giù pensieri, poesie e brevi racconti per sfogare malumori o fermare episodi che mi avevano colpito l'immaginazione e da allora non ho più smesso.

Di Livia Moncini Pietri

Elogio alle polpette

Che delusione, erano dure come palle di moschetto, le dovevi masticare bene,  dopo la prima masticata perdevano sapore, diventando una poltiglia infame da dover ingoiare a fatica.
Continuavo a mangiare sorridendo alla mia amica Sara con tutta l’educazione che riuscivo a racimolare arrovellandomi per cercare una scusa civile per lasciare quelle “cose” nel piatto,
“Non ci metti né pane ammollato né patate vero?”
“ No, solo carne macinata di prima qualità e aromi, questo è il segreto delle mie favolose polpette.”

Ah, le polpette della mia fanciullezza!
Quando mamma diceva: “Stasera quasi quasi faccio due polpette.” Il mio cuore si rallegrava. Non mi è mai piaciuta la carne ma quelle palline paradisiache nel loro sugo denso di un rosso vellutato, quell’odore di prezzemolo, di cose buone, erano per me la sintesi dell’amore di mia madre.

Eravamo una famiglia piccolo borghese che arrivava a fine mese con molte difficoltà e tanta parsimonia da parte di mia madre che si ingegnava a mettere insieme il pranzo con la cena inventandosi piatti nutrienti con un minimo di spesa.

Noi figli crescevamo in fretta anche di piedi , mentre si potevano allungare pantaloni e gonne con strisce decorative, le scarpe erano la spesa più importante.
Papà, piccolo impiegato statale, doveva avere il suo completo sempre in perfetto ordine, le camicie immacolate anche se collo e polsini venivano rivoltati con maestria, e  noi figli dovevamo vestirci in maniera decorosa per la scuola sebbene aiutasse molto avere d’obbligo i grembiuli.
La domenica a Messa  con i vestiti della festa ci era stato insegnato a sederci con garbo senza strusciare sui banchi altrimenti i tessuti si sarebbero lisi.
Quando si andava a giocare nei pomeriggi liberi, mettevamo le scarpe “Superga” bianche o blu che ci dovevano durare e, diventando corte, si tagliavano in punta per liberare le dita che non smettevano di crescere.

Ho avuto un’infanzia povera ma ricca di giochi, risate, lotte tra fratelli e cugini, sì il mio gruppo di gioco era formato da maschi tra fratelli e cugini pressappoco  coetanei, dove ero l’unica femmina perché mia cugina Luisa non contava, se qualcuno le dava una spinta o la faceva cadere dagli alberi su cui ci arrampicavamo spesso, lei cominciava a piangere chiamando la mamma, allora erano punizioni per tutti.

Essendo la sola femmina se dovevamo giocare agli indiani io ero sicuramente il cowboy preso prigioniero e legato al palo o l’indiano catturato dai cowboy.
Avevo un asso nella manica per difendermi ed era la mia treccia lunghissima e molto stretta. Se vedevo che il gioco si faceva duro, cominciavo a frustare con essa chi mi veniva a tiro gridando nel frattempo:
“ Mamma mi menano, aiuto!”
La treccia era un vero scudiscio, faceva male soprattutto sulle parti scoperte poi arrivava mamma che prendeva a scapaccioni i primi che capitavano redarguendoli sul come dovevano portare rispetto alle femminucce che erano più deboli e delicate mentre io guardavo la scena con un sorriso da stregatto. C’erano poi le battaglie con i gelsi rossi.
Nel nostro giardino cresceva un grande albero di gelsi rossi,  quando maturavano diventavano una vera delizia per il palato. Mamma ne faceva una granita divina e diventava la nostra merenda nei primi caldi di giugno però i frutti erano tanti.
 Ci arrampicavamo sul grande albero saziandoci della loro dolcezza e, una volta sazi, cominciavamo a sputarceli addosso come proiettili. Addio magliette, pantaloncini, le parti scoperte, sembravano ferite di guerra.
Mamma era alla disperazione, dopo averci riempito di contumelie e di sganassoni, ci metteva nel catino del bagno  lavandoci con sapone da bucato  usando la spazzola per i panni.
 Non era un’esperienza piacevole,  la pelle pizzicava per un bel po’ tuttavia il divertimento era tanto e ci riprovavamo.

Ripenso con malinconia a quei momenti infantili ora che sono un’attempata signora già nonna e mi dispero dietro a tre nipotini pestiferi.
Alle volte, guardandoli tutti presi a giocare a giochi elettronici, penso che la mia infanzia sia stata molto felice oppure i ricordi addolciscono il passato con quella lieve nostalgia che tinge di rosa tutto.
Sono quelle scorribande chiassose, alle volte violente, le grida,  i giochi inventati lì per lì, i lividi, le sgridate, gli sculaccioni e tante tante risate, però il ricordo più persistente è quello delle polpette di mamma.
   

Quando cucinava amavo guardarla per imparare i suoi segreti tipo la carne del brodo che finiva in padella con molte patate, olive e finocchietto. A noi figli toccavano almeno due o tre pezzetti di carne con tante patate mentre mamma si versava nel piatto solo patate.
Finalmente arrivava il giorno delle polpette che era di preferenza il mercoledì:
“ Quasi quasi faccio le polpette così con il sugo domani ci condisco gli gnocchi.”
Metteva il pane secco a bagno nell’acqua per ammorbidirlo, ci mischiava un po’ di carne macinata, formaggio,  un paio di uova,  prezzemolo e sale. Io mi ero già lavata le mani per aiutarla a formare quelle palline morbide che sarebbero finite nella grande pentola del sugo facendole sobbollire per un po’ fino a consolidarle.
La goduria dell’odore che ne usciva faceva venire l’acquolina in bocca nell’attesa della cena che sarebbe stata abbondante pur se si sarebbero dovuti mangiare anche i cavoli ripassati in padella che accompagnavano il piatto e, mentre si raccoglieva con il pane il sugo rimasto, si cominciava l’aspettativa degli gnocchi del pranzo del giovedì,  ancora mi fanno sorridere e venire appetito.

Probabilmente è l’età che avanza che mi riporta al passato, all’infanzia ricordata come un’età felice dove ogni problema veniva risolto dai genitori.

Alle volte mi preoccupo di questi momenti di malinconia, sento che gli anni passati a lottare con la vita, a pensare a farmi una carriera lavorativa, a sentirmi schiacciata dal dolore alla morte dei miei genitori, la lontananza dei fratelli, il fallimento del matrimonio,  insomma tutto ciò che la vita ci porta per vedere se stiamo maturando, se le lezioni impartite sono state ben apprese, sono state addolcite dai ricordi felici dell’infanzia.
E’ importante lasciare andare il passato per vivere il momento presente al massimo delle nostre possibilità tuttavia avere radici solide e gioiose aiuta molto.

“ Bambini, che ne dite se stasera la nonna vi fa le polpette?”
Eccoli lì i monelli che arrivano di corsa in cucina
“ Possiamo aiutarti?”
“ Certo ragazzi, lavatevi le mani.”
Alla fine del pomeriggio la cucina sarà un vero campo di battaglia però stasera a cena vedrò tre musetti sporchi di sugo e gli occhi brillanti di mia figlia.
“ Domani farai gli gnocchi mamma? Se sì, pensavo di fermarmi a pranzo da te dopo aver preso i bambini a scuola.”
Sorrido solo al pensiero di tramandare le tradizioni della mia famiglia, spero di star formando ricordi felici ai miei discendenti.

L’immagine di copertina è Pranzi in famiglia di Garzia Fioresi presa da valutazionearte.it