Di Geraldine Meyer
In questi giorni si assiste ad un dibattito, spesso surreale e, talvolta barricadiero, a difesa della stroncatura. Nobile arte certo ma che, purtroppo, diviene un’arma egotica con cui attirare l’attenzione più su chi scrive che sul libro di cui si scrive. Se è vero che la stroncatura è, o dovrebbe essere, una cartina di tornasole con cui valutare la libertà intellettuale del critico, è altrettanto vero che non dovrebbe essere presa, tout court come sinonimo della stessa libertà. In ogni caso, in questi giorni, si assiste ad una sorta di santificazione del “critico come stroncatore” che si ha quasi paura di parlare bene di un libro, quasi che il farlo ponga chi lo fa in una luce di sospetto.
Una lunga premessa per dire che questo Inciampi, di Gian Marco Griffi, edito da Arkadia, è un bel libro, un gran bel libro e non abbiamo timore alcuno a dirlo e scriverlo. Arkadia è una casa editrice che lascia molto spazio ai racconti, una forma letteraria che meriterebbe un’attenzione approfondita e che, spesso, diventa materia scivolosa, rischiosa, tirata com’è, spesso, per la manica tra dignità di genere e propedeutica al romanzo.
Ma qui, con questo Inciampi, Gian Marco Griffi si dimostra (o conferma) scrittore a tutto tondo, capace di prove di estrema bravura che sconfinano, in alcune pagine, in vero e proprio virtuosismo come quelle in cui scrive alla Gadda. Ma andiamo con ordine. Cos’è Inciampi? È davvero un libro di racconti? O è un romanzo sotto mentite spoglie? Lo stesso autore, ad un certo punto, sembra divertirsi con questo esercizio retorico, apparendo in uno di questi racconti come Hitchcock in alcuni dei suoi film.
Eppure la domanda non è oziosa perché Inciampi ha un filo rosso che unisce le pagine ma ha anche molti rivoli che si distaccano, almeno in apparenza, dalla strada principale. Lasciando un vago senso di disorientamento, amplificato dal fatto che ciò che in prima battuta ci strappa una risata, piano piano ci accorgiamo che non vuole essere divertente. E fa esattamente ciò che dovrebbe fare la risata: aprire un varco temporale fatto di sospensione in cui, al fragore della reazione iniziale (la risata appunto) segue un improvviso silenzio, il più delle volte malinconico se non triste.
In questi racconti (o romanzo camuffato) la costante è sempre questo senso di ribaltamento, di inciampo, appunto, che facendo perdere il ritmo naturale della camminata, ci costringe a guardare le cose da un’altra prospettiva, quella con le gambe per aria e la testa più in basso del punto classico di messa a fuoco. Leggendolo si ha, costante, la sensazione che Griffi ci stia dicendo altro, o che almeno ce lo stia suggerendo. Prendiamo, per esempio, il racconto Poesia per un tasso in cui, ad un certo punto, i protagonisti si trovano a piangere seppellendo il povero animale, mentre subito ci ritroviamo a comprendere che ciò per cui stanno piangendo è altro. E non c’è bisogno di dirci per cosa. Ciascuno di noi ha provato quel momento in cui un pretesto apparentemente insignificante ci ha fatto scendere qualche lacrima catapultandoci tra le braccia di ciò per cui stavamo davvero piangendo.
Lo stesso si potrebbe dire del soldato che ha trascorso tutta la guerra vittima (o alleato) di una provvidenziale narcolessia che altro non è che l’altra faccia della paura, di un bisogno di chiudere gli occhi davanti a ciò che rifiutiamo. E non per vigliaccheria. O il vomito provocato dal vedere i cadaveri provocati da un terremoto, o l’assurdità della scienza che vuole racchiudere le lucciole per ricavarne energia, salvo levarci la poesia, fallire l’esperimento lasciandoci senza lucciole, senza energia e senza poesia.
Sono racconti che sembrano davvero procedere per sottrazione, come se qualcosa venisse levato, o meglio mimetizzato, per poi apparire esattamente per quello che è. Questo è il meccanismo del comico, dell’assurdo, dell’onirico di questo libro, di Fausto e sua madre Tilde, canto e controcanto accompagnato da altre voci e da altri inciampi. Perché, in fondo, la vita è questo.
Un libro che è anche, un inno alla parola e alla scrittura, come appare (o almeno come è apparso a me) nel racconto Tutte le riviste della mia vita, in cui ci viene raccontato una specie di taccuino di uno strampalato collaboratore delle più surreali riviste del mondo. Non c’è argomento, non c’è cosa o fatto che la scrittura non possa rendere degno di uscire dai confini della banalità, anche scrivere di tradimenti sessuali, di miracoli o di scrittori invidiosi (forse le pagine queste più belle di tutto il libro).
Griffi riesce con calviniana leggerezza a raccontarci le pieghe della vita, dell’amicizia, come dell’amore e della morte, suggerendoci che l’inciampo e l’ostacolo forse sono davvero quello che alcune culture, come per esempio quella ebraica, considerano “il giusto”.
sideKar
Racconti
Arkadia
2019
225