Maria Lai – Tenendo per mano il sole
Di Alessandra Durighiello
“Michelangelo ci racconta come è nato l’uomo, ma ce lo dà perfetto, nel meglio della sua crescita animale. È troppo bello, è troppo natura per essere uomo. Sappiamo che l’uomo ha perso il paradiso terrestre perché non è stato bambino, non aveva giocato abbastanza. Noi siamo gli eredi di chi ha perso il paradiso terrestre. Abbiamo sempre bisogno di giocare perché solo così lo riconquistiamo. Bisognerebbe ripercorrere questa storia in un mondo che ormai sembra destinato allo sfacelo. Io sono una bambina che gioca. Ogni bambino inventa di essere un altro perché la vita non gli basta, e allora nascono le storie. Raccontare le storie è un modo di giocare e di ritrovare qualcosa di un vecchio paradiso dimenticato”.
Lingue di terra modulate nei profili dalle viti. I filari disegnano geometrie perfette. È fine agosto e tra poche settimane inizierà la vendemmia del corposo e intenso Cannonau. Percorrendo una strada tortuosa, poco trafficata, inizia la salita verso Jerzu e poi ancora verso Ulàssai alla base dei Tacchi. È qui, nel cuore dell’Ogliastra in Sardegna, che nasce il 27 settembre 1919 Maria Lai, una delle voci più originali dell’arte italiana contemporanea, un’artista che ci parla di relazione e di infinito, di comunità e di individuo, del cammino alla scoperta del proprio io, dell’accettazione della propria ombra e quindi dell’altro. In occasione del centenario della nascita, fino al 12 gennaio 2020, il MAXXI di Roma le dedica la grande mostra antologica Tenendo per mano il sole, dal titolo della prima Fiaba cucita, un titolo che rimanda al suo interesse per la poesia, il linguaggio e la parola, alla cosmogonia delle sue geografie evocata dal sole, alla vocazione pedagogica del tenere per mano.
L’opera di Maria Lai è profondamente radicata alla terra d’origine e alle sue tradizioni; dimostra soprattutto una spiccata sensibilità per la tessitura, quell’arte attraverso la quale la donna ha creato i primi segni per comunicare, segni che poi si sono trasformati in lettere e quindi in parole. Il telaio diviene metafora del mondo tessuto dall’universo femminile. Ancora oggi ad Ulàssai, la Cooperativa Artigiana Su Marmuri prosegue l’antica tradizione tessile, realizzando tappeti e arazzi con disegni creati appositamente da Maria Lai. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, il Telaio diviene il supporto che dà vita alle sue creazioni: elementi di vario materiale vengono disposti come pagine di un libro su cui i fili tirati narrano storie, comunicano sentimenti e sensazioni. Nei suoi Libri il filo attraversa la stoffa per formare una scrittura asemantica, il filo diventa inchiostro che tramanda un canto che non si presta ad essere decifrato, da cui non si può trarre un significato, non si deve interpretare perché l’interpretazione è una presa di possesso che esclude i sensi molteplici che un simbolo reca in sé.
“Che cosa vuol dire cucire? Un ago entra ed esce da qualcosa lasciandosi dietro un filo, segno del suo cammino che unisce luoghi e intenzioni. Più che saldare e incollare, che implica estraneità, il filo unisce come si unisce guardando o parlando. Niente ne è fisicamente trasformato. Le cose unite restano integralmente quello che erano, solo attraversate da un filo, traccia di un’intenzione, raggio laser, nota assoluta che fugge da un piccolissimo buco, percorso del pensiero. Un bussare alla porta, un entrare. Esplorazione, non presa di possesso, perché il filo si può tagliare e sfilare, e tutto, luoghi e traccia del pensiero tornano intatti affidati alla memoria che è un altro filo, un altro cucire”.
Lungo la strada di montagna che porta alle affascinanti grotte di Su Marmuri, sul luogo in cui sorgeva una vecchia discarica, si può ammirare La scarpata, opera che parla dell’evoluzione dell’umanità utilizzando cemento armato, acciaio inossidabile, tempera e il Muro del groviglio, un muro costruito per contenere lo scolo delle acque e le frane, dove sono incise con grafia lineare, quasi infantile, i pensieri del maestro e amico Salvatore Cambosu. Ulàssai è diventato il pezzo di un’opera d’arte (o meglio di una performance) nel 1981, con il progetto Legarsi alla montagna: muovendo da un’antica leggenda locale per la quale una bambina, utilizzando un nastro azzurro, avrebbe salvato l’abitato da una frana, gli abitanti annodano uno ad uno nastri azzurri, legando insieme le case del paese e queste alla montagna sovrastante, svelando le tessiture dei rapporti sociali e umani. Maria Lai disintegra lo stereotipo dell’artista che, rinchiuso nel suo studio, concepisce il concetto, sceglie la materia e organizza la relazione tra concetto e materia, coinvolge la comunità e si serve di un materiale diverso: non del nastro, non del paese inteso come insieme di case, nemmeno della montagna, il suo materiale sono le persone. Identifica la paura di cimentarsi in quella performance con la paura di esporsi e così, rendere i legami e le fratture di una comunità visibili plasticamente, è un modo per rompere la paura, il silenzio dell’inimicizia delle persone che si rifiutano di tendere il nastro da una casa all’altra. Un filo che tiene e che unisce. Ecco cosa bisogna cercare nell’intricato ricamo dei rapporti sociali, intellettuali e affettivi dissolti nella società liquida.
Dal 1981 Maria Lai ha mantenuto un intenso legame con Ulàssai, fino alla decisione di donare al comune una parte significativa della sua ricerca che è stata raccolta ed esposta negli spazi della Fondazione Stazione dell’arte. Tre caseggiati della vecchia stazione ferroviaria sono stati ristrutturati in un moderno Museo d’Arte Contemporanea che non si limita ad accogliere le opere donate dalla Lai ma si apre anche alla musica e al teatro e si impegna in un importante lavoro di educazione alla lettura delle opere d’arte.
In copertina: Libro – Tenendo per mano il sole di Maria Lai