Di Valentina Di Cesare
Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere
G. Agamben
Straniera dappertutto: si definiva così Fausta Cialente, come a ricordare a se stessa quanto il destino del peregrinare da una città all’altra senza mettere mai radici in alcun luogo, la inseguisse sin da bambina, forgiandole così carattere e temperamento, e condizionando in gran parte, la sua storia umana e dunque di scrittrice. Ma straniera forse, anche perché, Fausta Cialente conosceva bene la diffusa difficoltà che l’umano ha sempre incontrato nell’entrare a contatto con l’altro, nel comprendere differenze e reciprocità nel segno del rispetto e della comprensione vicendevoli.
E tale condizione, quella appunto dell’estraneità e dello sradicamento, per la scrittrice non era ascrivibile alla sola appartenenza a un luogo o a un’etnia, ma affondava le proprie radici ben più in profondità del dato confine geografico o del colorito della pelle, andando a tormentare i grandi temi esistenziali quali la libertà, i valori etici, la pietà, l’uguaglianza, il senso stesso della vita. Riservata, schietta, rigorosa, per la Cialente la letteratura non doveva essere “un’evasione soltanto, una specie di caldo cuscino messo sotto i piedi infreddoliti in una cattiva stagione”, ma al contrario bisognava che essa scegliesse volutamente di condurre il lettore a guardare da vicino gli angoli più bui e complessi del reale, quelli che intenzionalmente ognuno respinge e non vuol affrontare, per paura di comprendere le proprie responsabilità. Nata a Cagliari nel 1898 da padre abruzzese e madre triestina, visse con la famiglia e il fratello minore Renato in svariate città d’Italia, dove il padre, militare in carriera, veniva continuamente trasferito. Unico approdo certo della sua vita fu Trieste: lì vivevano i parenti della madre, dai quali la scrittrice si recava periodicamente per le vacanze. A poco più di vent’anni, dopo aver sposato a Fiume il compositore e agente di borsa Enrico Terni, lo seguì in Egitto, allora ancora sotto il dominio inglese ,e vi rimase per ventisei anni, pur non spezzando mai il suo legame con l’Italia dove rientrava di tanto in tanto, e dove alla fine tornò stabilmente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Durante gli anni del conflitto, abbandonò la scrittura per dedicarsi a un’intensa attività antifascista che condusse strenuamente, manifestando sempre un’attenzione molto forte nei confronti delle classi sociali meno abbienti, che maggiormente pagavano lo scotto delle ostilità. Fu per tre anni speaker radiofonica di Radio Cairo dove fece controinformazione in contrasto alla propaganda fascista, e nel 1943 fondò un periodico distribuito ai prigionieri italiani di guerra. Una volta tornata in Italia, si occupò di importanti inchieste sullo sfruttamento del lavoro femminile e sulle condizioni di miseria in cui versava il paese nel dopoguerra, si dedicò alla traduzione di diversi romanzi dall’inglese (uno su tutti Giro di vite di Henry James) e riprese a pubblicare romanzi e racconti .
A rileggere adesso i libri della Cialente, (il suo esordio avvenne nel 1930 col romanzo Natalia), ci si rende conto di quante cose siano mutate rispetto al nostro presente, ma nel contempo scorrendo le sue pagine e, in particolare soffermandoci su quelle del cosiddetto periodo di ispirazione levantina o ciclo egiziano, ascrivibili ai romanzi Cortile a Cleopatra (1936), Ballata Levantina (1961) e Il vento sulla sabbia (1972), ci si accorge di quanta chiarezza, quanto coraggio, quanta lucidità e quanto elevato senso civico fluissero dalla penna di questa donna, così precisa e in anticipo sui tempi, specie nel descrivere le feroci contraddizioni sociali ( che oggi ci impressionano sempre più manifeste) e nell’evidenziare le enormi disparità economiche, che vedevano da una parte la ricca borghesia europea e dall’altra gli indigeni, uomini e donne che in quei luoghi avevano sempre vissuto. Il disprezzo, il distacco, ma anche il pietismo e il sarcasmo con cui gli europei levantini trattavano gli autoctoni, colpevoli soprattutto di essere ignoranti, fu uno spettacolo al quale Fausta Cialente non si abituò mai, e che le comportò anche una serie di disaccordi con alcune persone a lei vicine. Il contatto con l’altro ovvero il nostro simile seppure diverso, non era mai inteso alla pari e la bella vita che gli europei levantini si vantavano di condurre ad Alessandria o al Cairo, esaltando altresì le grandi opere e i progressi, non aveva riscontro nella narrazione esistenziale degli indigeni, che non godevano invece di alcun privilegio. La disumanità e la spietatezza delle disuguaglianze che la Cialente narra nei suoi tre romanzi di ispirazione levantina, non si fermano soltanto al ritratto di un’incosciente e colpevole borghesia, connivente e perfettamente consapevole delle proprie responsabilità nei confronti dei ceti meno abbienti, ma proseguono sino agli esiti che tali disparità hanno generato nel corso degli anni nella società. Ebbene l’incrostazione di tali cospicue differenze, date col tempo per usuali specie dalla parte dei privilegiati, sono chiare in Marco, protagonista di Cortile a Cleopatra, figlio orfano di un imbianchino italiano con velleità di pittore e di una religiosissima donna greca.
Il ragazzo è “colpevole” di amare la lettura e l’ozio pur appartenendo al popolo, e reo di essersi invaghito di Dinah, figlia di un ricco pellicciaio armeno e averla preferita alla povera Kiki, certamente più alla sua portata. Allo stesso modo sono chiari nel temperamento coraggioso e anticonformista di Daniela, protagonista di Ballata Levantina, discendente da una famiglia europea benestante di stanza ad Alessandria d’Egitto, che sin da piccola avverte le ipocrisie e le cattiverie dell’alta società e ne scopre gli intrighi e le colpe, distanziandosi sempre di più dai cliché e dai modelli del suo ambiente, e indirizzandosi verso scelte tutt’altro che disimpegnate, politicamente ed eticamente.
Ne Il vento sulla sabbia, l’ultimo romanzo della cosiddetta ambientazione levantina, la protagonista Lisa, giunta in Egitto da Udine a casa di lontani parenti benestanti emigrati in Medio Oriente, assiste al disfacimento di uno strano triangolo amoroso che vede protagonisti due donne e un uomo, borghesi d’alto rango, incatenati per anni ai loro stessi silenzi perbenisti, incapaci di affrontarsi l’un l’altro per non rompere gli equilibri raggiunti, anche con il coinvolgimento di amici, vicini di casa, e di un inerme servitù indigena, tutti completamente sacrificati alla causa. Sono la cecità, l’indifferenza, il pregiudizio, la noncuranza nei confronti dell’altro e delle proprie esigenze, i temi che vanno a snodarsi in maniera più o meno omogenea nei tre romanzi “levantini” di Fausta Cialente, testi ricchi di riferimenti storici eppure introspettivi, capaci di indagare (e in questo la Cialente è maestra) il legame inscindibile eppure ancora troppo sottostimato, tra pubblico e privato, tra la Storia che tutti riguarda e le conseguenze che questa ha sulle storie dei singoli. Leggere Fausta Cialente oggi, e andare in particolare ad interessarsi di quei suoi romanzi che maggiormente esplorano le tematiche legate al riconoscimento dell’altro, è una scelta importante perché contribuisce a identificare con più precisione i percorsi che hanno portato alle disparità di potere e/o di influenza alle quali ci siamo (quasi) tutti tristemente rassegnati, e aiuta a far luce sulle illusorie costruzioni identitarie così tanto in voga (dall’etnia alla culto religioso, dalla regione sino alla scuola frequentata), gabbie che imperano insistentemente nel nostro quotidiano e che intrappolano tutti, persino coloro che si convincono di essere liberi .