“Era la tremenda estate del 1989, quella che ci si appiccicò addosso.” Comincia così Mezza luce mezzo buio, quasi adulti, di Carlo Bertocchi, uscito oggi per Terrarossa Edizioni e che ci piace definire uno Stand by me, Ricordo di un’estate in salsa romagnola. È l’ultima estate prima di iniziare le superiori quella che stanno vivendo Bert e i suoi amici. Tra giornate che sembrano non voler mai finire, una ragazzina dai capelli rossi e le lentiggini, gruppetti di bulli più o meno patetici, si assapora tutto il passaggio tra qualcosa che sta per finire per sempre e qualcosa che sta per iniziare con tutto il suo carico di aspettative e incertezze.
Mezza luce mezzo buio, quasi adulti, ci catapulta, già dal titolo, in quella età della vita in cui ogni cosa appare ammantata di avventura, in cui tra riti di passaggio e dinamiche umane che sembrano quasi tribali, infanzia, adolescenza e età adulta si mescolano in una confusione emozionante e irripetibile.
In una vita di provincia in cui ogni cosa viene incontro come dilatata ed esasperata al contempo, un gruppo di adolescenti si muove tra azioni e sentimenti che paiono trasformare tutto in un gigantesco Risiko, con in sottofondo il mondo degli adulti che, se da una parte si cerca di scimmiottare, dall’altra resta qualcosa di distante eppure dalle influenze inevitabili.
La voce narrante non assume mai le note di un assolo perché l’età di cui ci narra questo libro è quella in cui il gruppo, il branco, sono la cosa più importante, con le sue dinamiche, spaventose forse ma così rassicuranti. Quell’età in cui il gruppo di amici ancora ci illude di poter avere sempre e per sempre dei complici. Prima di arrivare all’età adulta, quella in cui capiremo non solo di essere soli ma anche che quella illusione era il regalo più bello.
Ma l’età adulta è sempre in agguato e qui prende la forma di un fuggiasco, un albanese accusato di avere ucciso la moglie del fornaio del paese. Lo straniero, l’uomo nero, il capo espiatorio attorno a cui si coagulano le nevrosi e le miserie degli adulti che, tra ronde notturne e chiacchiere da bar, saranno il modo con cui questi ragazzi capiranno che non solo non bisogna affidarsi alle apparenze ma, ancor più, non bisognerebbe perdere quella curiosità e quel senso dell’avventura che, sole, possono aiutare a comprendere la differenza tra giusto e sbagliato.
Mezza luce mezzo buio, quasi adulti è un libro che, in uno stile ironico ma velato di malinconia, sembra leggero ma, in realtà, ci dice molto più di quanto non sembri ad una prima lettura. Non mancano considerazioni di tipo politico e sociale tra neanche velati richiami alla lotta partigiana, alla vigliaccheria fascista e al bisogno di una complicità che metta in primo piano l’umanità di guardarsi negli occhi.
Una lettura del mondo vista dagli occhi di ragazzini non ancora contaminati da una vita che, presto o tardi, trasforma la prudenza in calcolo, la dubbiosa curiosità in granitica certezza. La contrapposizione dunque non è tanto, come scritto nella quarta di copertina tra “chi dubita che un buon romanzo possa appassionare sia gli adulti sia i ragazzi” quanto, semmai tra la fanciullezza e l’età adulta in generale.
L’augurio che facciamo ai ragazzini protagonisti del libro (e a tutti gli adolescenti del mondo) è che davvero quella estate rimanga loro appiccicata addosso, con tutto il suo carico di meraviglia e difficoltà, con quella consapevolezza, purtroppo sempre a posteriori, che quelli erano davvero (comunque) i giorni più belli della vita ma non lo sapevano. Che quella estate rimanga loro appiccicata addosso se non come impossibile “momento eterno” almeno come ricordo di come si era capaci di guardare il mondo.
Solo due piccoli, piccolissimi appunti. L’autore avrebbe potuto osare un maggiore stacco temporale nel linguaggio. Vero che la voce narrante non ha più l’età che aveva quando i fatti di cui ci racconta sono avvenuti. Però, forse, avrebbe dovuto donare ai protagonisti un linguaggio più da ragazzini, appunto. E dichiarare una sorta di “legame” con Stand by me a cui, come detto in apertura di recensione, il libro assomiglia molto. Perché non c’è nulla di male, anzi, nel realizzare una bella cover. Un po’ come Francesco Aloe ha fatto con il suo bellissimo L’ultima bambina d’Europa, apertamente rifatto “sulle note” de La strada di Cormac McCarthy.
Ne parlo con l’autore con cui è nato un bello scambio di opinioni.
Forse sono solo io ad avere visto questo legame con Stand by me. Alcuni elementi me lo ricordano molto. Per te non è così? Quali altri scrittori ti hanno influenzato nella stesura di questo libro, dando forse per scontato che un’influenza c’è sempre e, come diceva il grande Harold Bloom, non bisogna averne paura.
La storia che ho proposto è un mix di cronaca rivisitata con un omaggio al tempo che è stato, a quanto di urgente ci sia in quell’età che rispetto ad altre è una delle più coraggiose e stimolanti.
In questo si può trovare un riferimento ad altri, e mi è più chiaro adesso che ne discuto di quanto non sia stato in scrittura, ma scientemente non ho mai pensato di voler fare una cover di alcuno.
Anche se apprezzo certe cover più degli originali (pensa se i Clash non avessero mai rifatto I Fought the law) non credendomi i Clash (peccato) non ho cercato di ri-arrangiare King.
Per rispondere all’ultima parte della domanda, nel mio bagaglio letterario e culturale vi è certo King, ma ci sono anche Ammaniti e Cavina, o libri come I ragazzi di via Pal e molti altri. Una influenza c’è sempre, può essere più o meno evidente ma credo sia impossibile escluderla, anche in chi dichiara di fare quanto mai fatto prima, per escludere un “prima” devi averlo navigato, conosciuto, vissuto. E non è una colpa o un problema, purché non siano brutte copie. Il Toro di Picasso è avanguardia, ma lo ha potuto realizzare solo grazie al suo passato e al suo vissuto.
Per quanto riguarda il linguaggio, che ne pensi del mio appunto? Avevi pensato, mentre lo scrivevi, di “osare” di più?
Una delle prime stesure era forse più spinta, ma mi sembrava quasi caricaturale. Come se un adulto spingesse per fare un salto indietro nel passato e sbagliasse la lunghezza della corsa. Forse era adatta a ragazzini ancora più piccoli. In fin dei conti i miei protagonisti sono di confine, in tutti i sensi. Stanno entrando nel pieno dell’adolescenza, e in quel frangente provi anche a fare la voce più da adulto, a liberarti di alcuni modi di dire che ti configurano come bambino perché vuoi essere accreditato tra i grandi (non fatelo!). Quando il romanzo ha preso la piega che vedete la lingua è venuta da sé, con una voce che credo la sostenga nella terra di mezzo nella quale i ragazzi si trovano.
È un libro ricco di sottotesti, di suggestioni, anche politiche. Sembra quasi che oltre ad un rito di passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta, tu abbia quasi voluto raccontare un rito di passaggio che ha riguardato tutto il nostro paese. È così?
Mi piace molto la tua analisi, perché per me è stata la parte più interessante e dura da inserire in tutto il romanzo. Volevo che trasparisse, senza diventare il tema principale, l’onda lunga dei cattivi pensieri e lo scadimento di una certa sensibilità e consapevolezza comune e di comunità che ha una lunga storia nel nostro Paese.
I “passaggi” per fortuna possono essere in entrambi i sensi, non solo verso il lato oscuro, credo che raccontarli possa aiutare a spingere dal lato positivo.
E poi mi è uscito così, d’altronde tutta la mia vita è permeata di esperienze e suggestioni sociali e politiche, devo solo evitare di farne dei comizi.
Narrativa italiana
Terrarossa Edizioni
2019
164