Di Geraldine Meyer
Una certa parte della narrativa contemporanea, quella degli ultimi anni, ci ha restituito una Sardegna stereotipata, piena di clichè e di vestiti di velluto. Raccontandoci, così, una Sardegna che non esiste e che non è mai esistita. Ecco perché è particolarmente meritorio che un piccolo editore di Agropoli, L’ArgoLibro, abbia stampato e, addirittura, ristampato un libro come Il cane comunista e altri racconti di Laura Vargiu.
Racconti che fanno della semplicità, di scrittura e non solo, un’arma tagliente e lucida con cui ci viene raccontata questa isola, la sua gente, la protervia dei potenti e la dignità del popolo, quello vero, quello che ha sempre pagato per il solo fatto di essere povero. I racconti di Laura Vargiu sembrano fotografie o fotogrammi di un film in bianco e nero in cui nulla ci viene risparmiato di quanto accaduto in Sardegna, dove una invisibile quanto invincibile linea di demarcazione tra ricchi e poveri, tra arricchiti e lavoratori.
Nella Sardegna degli anni venti, dopo la Grande Guerra, e negli anni della seconda guerra mondiale, seguiamo le storie e le vite di uomini e donne, bambini e bambine violentati dalla protervia della politica e dell’industria del carbone, sfruttati come la loro terra ma, come la loro terra, gravidi di dignità e bellezza.
Nel Sulcis all’epoca ricco proprio per le miniere, erano sempre pochi quelli che si arricchivano facendo scempio delle vene sotterranee della Sardegna, e sempre molti quelli che, in quelle vene, trovavano la morte e la malattia. E chi non scendeva in miniera, nella miniera ci lavorava comunque, in un modo o nell’altro, portandosi addosso polvere e miseria. E, attorno, una guerra decisa da chi a combatterla non ci andava, mandando a morire sempre i più poveri. Strappati alla vita per partire per il continente e in altri paesi di cui, a malapena, avrebbero saputo trovare collocazione su una cartina geografica.
Quella di Laura Vargiu è la Sardegna spolpata di tutto, non ultima della ferrovia del Sulcis (non a caso la copertina del libro riporta proprio un convoglio delle Ferrovie Meridionali Sarde) che, come scrive l’autrice: “[…] permetteva a tanti piccoli centri di essere collegati più agevolmente, grazie alle opportune stazioni di scambio, alle città principali, compresa Cagliari.” Finita l’attività estrattiva il capitale se ne andò, piano piano, portandosi via anche quella strada di ferro che tanto significava per le popolazioni del luogo.
Questi racconti, di cui un paio davvero sublimi, è un durissimo atto d’accusa. Un atto d’accusa che, come solo sa fare la letteratura più bella, non appare immediatamente come tale ma lo diviene nel farsi, nello scriversi e nel raccontare. L’accusa è nelle parole come i piccoli riscatti di cui, alcuni dei personaggi, riescono ad essere protagonisti, come il carpentiere che “vince” la sua sorte imparando a scrivere, potendo così “firmare” i suoi lavori. O come la gioventù che si riconosce uguale pur su fronti diversi, come nell’incontro tra la giovane donna e il soldato tedesco, poco più che adolescente.
Alcune pagine di questo Il cane comunista hanno il sapore e la cruda levità (altro ossimoro possibile solo nella letteratura migliore) di alcuni degli esempi più belli del nostro verismo, un sapore privo di retorica e arcadia, un po’ come nei libri di Saverio Strati. Una letteratura meridionalista ma senza la claustrofobia del localismo. Questi sono sì racconti di Sardegna, ed è innegabile sia così, ma con un respiro largo, il respiro di quella letteratura che respira un attimo in più e usa quell’attimo in più per raccontare storie universali.
I poveri, i lavoratori, i militari dipinti in queste pagine sono l’emblema di una lotta di classe che è di tutti gli ultimi eppure è il racconto autentico di una Sardegna così lontana dall’immagine da cartolina del mercato.
Per informazioni e per acquistare il libro, consultare il sito dell’ArgoLibro al link largolibro.blogspot.com
Racconti
L'Argolibro Editore
ristampa 2019
104 p, brossura