L’Istituto di Stephen King. L’entropia degli adulti utilizzata come esperimento sui bambini.
Di Carmine Maffei
Ci ha abituati fin troppo bene il Signor Stephen King, il Re.
Eppure noi ammiratori di questo scrittore tanto prolifico continuiamo a cullarci nell’evidenza che ancora oggi sia il re dell’horror, o comunque del paranormale, di quei fattori senza spiegazione che da ragazzi ci incollavano alla nostra poltrona preferita, magari quando in casa c’era ancora qualcuno, oppure nel tepore delle coperte, non prima di aver controllato sotto il letto…
Ma c’è da ricordare che King ha subìto anche diverse ingiustizie dalla critica, prima di salire all’Olimpo degli scrittori pluripremiati, e questo, ovviamente, già quando coi romanzi –discutibili o meno- che scriveva, riusciva a mantenere la sua famiglia, e ogni qualsivoglia scrittore o artista sa benissimo di cosa sto esattamente parlando.
Perché attaccarlo allora? Si trattava in realtà di un tempo in cui esisteva ancora la critica letteraria? Pensate davvero che il compianto Harold Bloom lo sopportasse davvero tanto?
Sì, esatto, proprio lui. L’ultimo dei maggiori critici letterari ammirava, sempre tra le righe, la continuità nello scrivere un romanzo dietro l’altro senza sosta, paragonandolo –ma in termini numerici, per carità!- a Honoré de Balzac.
Ma ci ha abituati bene, Stephen King, a discapito di ciò che si sarebbe aspettato dal plauso di quella schiera di ammiratori che lui neanche immaginava di conquistare, ossia forse i meno autentici, meno sinceri, ma tuttavia quelli che fanno parte della “massa” di cui parlavano i Depeche Mode negli anni 80. Sembra infatti assurdo che dall’inizio dei ’90, invece, la sua credibilità sia salita a livelli vertiginosi, e questo proprio quando noi poveri adolescenti illusi ci siamo sentiti “traditi” dal nuovo filone letterario, un po’ più psicologico, che la sua mente infinita stava propagando a destra e a manca; proprio quando non ci sentivamo pronti ad ammettere che romanzi come Mucchio d’Ossa o Il Gioco di Gerald meritassero anche quell’attenzione che gli era mancata per troppo, troppo tempo. Poi però ci siamo sciolti con Il Miglio Verde, Dolores Claiborne e Rose Madder, e abbiamo compreso, col tempo, che anche la nostra sensibilità aveva bisogno di cambiare aria, e dovevamo aprire le nostre ante a universi molto più recepibili in fattori umani, più che inumani.
Entropia è quel fattore psicologico che ci spinge a dare per scontato che le cose che stiamo facendo andranno sempre per il meglio, soltanto perché abbiamo il vento in poppa da tempo, e non ci preoccupiamo che l’otto volante su cui sediamo prima o poi prenderà una salita ripidissima, e non ci sarà certo un sistema meccanico a trascinarci su…
E proprio di questo stiamo parlando ora, che lo si veda da lettori ignari del nostro futuro, o da semplici abitanti dei nostri microcosmi. King, negli ultimissimi anni, è maturato in maniera autentica, squisita, e non ha perso pezzi per strada, come qualcuno dei nostri amici ancora sostiene, ma ne ha raccolti a iosa nel lungo percorso che ancora sapeva che lo avrebbe atteso (entropia, che dite?) Tanto per citare gli ultimi, in The Outsider c’era un chiaro riferimento ai racconti di Arthur Machen, e alla teoria di H.P. Lovecraft, che con la scusa dell’orrore, sostenevano che il male incurabile dell’uomo risiedeva a pochi metri dai nostri piedi, ossia in realtà poco più sotto delle nostre capacità d’intendimento, e che svelati i misteri con la nostra intelligenza non più assopita, avremmo chiarito che bisognava stare in guardia dagli orrori umani, e sempre.
In Elevation, invece, è il suo eroe scrittore Richard Matheson, che con la teoria di quell’uomo che rimpiccioliva giorno per giorno (Tre centimetri al giorno), aveva inventato quella particolare somiglianza al credere, attraverso la letteratura, che le persone speciali, sottovalutate perché inadatte ad una società inasprita e da competizione, siano in realtà destinate a scomparire, o come nel caso del sopraccitato romanzo, a lievitare fino a diventare un puntino in cielo.
Nella sua ultima fatica, invece, L’Istituto (tradotto ancora da Luca Briasco), continua la saga dello stare allerta, ma ci sono –udite, udite, affezionatissimi!-, chiari riferimenti al suo passato da autore incompreso, come la telecinesi di Carrie –suo primo romanzo-, e L’Incendiaria; oltretutto salta all’occhio quella tipologia della forza dell’amicizia, tipo Dumas, come nei più fortunati Il Corpo –Stand by me- e It, oltre che a quello scritto a quattro mai con Peter Straub, Il Talismano.
Cosa hanno in comune tutte queste opere? Semplice: i loro protagonisti sono sempre dei ragazzini, quasi bambini, che con la forza della loro astuzia innocente, e anche a particolari poteri paranormali, sono i veri autori della salvezza di questo mondo malato, e lo dico senza scherzi.
Senza perdersi nella trama, che si potrà leggere ovunque e che farà ancor più incuriosire il futuro lettore, si deve anzitutto ammettere che L’Istituto possiede la capacità e la potenzialità della maturità di King, oltre che una rispolverata dei miti che gli hanno fatto guadagnare la fortuna e la nomea di re dell’horror, riscoperti poi, appena dopo i tanti riconoscimenti.
Il gruppo di ragazzini che troviamo in questo romanzo, è vittima di una grossa cospirazione che tende a distruggere persone poco piacevoli sparse per il mondo, ma così influenti nella politica che un domani prossimo potrebbero guidare le nazioni ad un ennesimo conflitto mondiale, o forse ad un ennesimo olocausto o una guerra nucleare. I poteri telecinetici o telepatici -e spesso entrambi- che posseggono, nascono con essi stessi, ma sono potenziati dagli esperimenti che si tengono in un istituto che si trova nel Maine, e le forze esaustive combattono il pensiero dei loro bersagli umani, incitandoli alla morte, o comunque all’autodistruzione, salvando così la patria anzitutto, e poi il mondo intero da una minaccia certa. La particolare e inquietante verità è che i ragazzi speciali, che vengono rapiti a forza, anche a costo della vita dei loro cari, vengono talmente “svuotati” dei loro poteri, dopo averli stimolati per accelerarne il processo, che alla fine sono internati in una stanza asettica, che li ospita, ormai inutilizzabili, e riserva loro un ultimo rifugio per accoglierne la pazzia, e infine la morte.
Altra struggente verità è che tanti altri istituti sono sparsi per il mondo, e che ognuno ha lo stesso allucinante compito: esperimenti nati sotto il nazismo e continuati con la Guerra Fredda fanno intendere che gli odii interrazziali e i nazionalismi non cesseranno mai di esistere, e che il paradosso è che si sono sacrificati, in un tempo che si protrae da più di settant’anni, un numero esiguo di ragazzini, rispetto a quello infinitamente superiore che avrebbero trovato una fine prematura a seguito di un conflitto mondiale. Che sia fantasia o irrealtà è irrilevante, mentre ciò che fa paura è che una società sedicente perbenista, per il bene del loro futuro prossimo, e per salvaguardare quell’entropia di cui parlavamo poc’anzi, sarebbe anche disposta a sacrificare agnelli innocenti, o peggio, creature coscienti, vigili e capaci di un’intelligenza elevata, per assicurarsi che i propri confini non siano sbrindellati. O come più o meno dice nel libro: i bracconieri che abbattono un elefante di cinque o sei tonnellate per garantirsi appena una quarantina di chili d’avorio.
Il paradosso abita proprio qui, tra queste 561 pagine, e mai vi abbandona appena ne aprirete un altro, di libro. Esso sarà con voi ancora per tanto, tanto tempo. Ed ecco cosa intendevo quando spiegavo che King, con L’Istituto, risveglia le sue antiche passioni e le addiziona al suo nuovo stile, meno orrorifico, ma più autentico.
Sono stato qui con voi per spiegarvi che L’Istituto è finalmente un romanzo completo.
Letteratura
Sperling & Kupfer
2019
576 p, rilegato