Luigi Ghirri o della vita in una immagine sola
Di Vladimir D’Amora
“… che è, senza immagini, il rifugio di tutte le immagini.”
Walter Benjamin, Troppo vicino
I Quando possiamo trovarci a guardare una fotografia, per lo più capita che ciascuna sua visualità sia tanto piena, da potersi lasciare svuotare da quella a essa più prossima come dalla più distante.
Ciò è: la fotografia è presenza tale, da riuscire a sostenere ogni sua, endogena come alienata, smentita. Per ciò la fotografia è il supporto della primazia pubblicitaria – e delle sue immagini di impegno critico, delle sue messe in luce di mancata porosa esposizione – le sue derive d’arte.
La fotografia, quasi ogni fotografia, lascia che luce e non luce iterino per lo più facce, istituendo non volti, anzi, i visi possono, non istantaneamente né simultaneamente, persino spegnersi – senza che la fotografia smentisca le sue luci, le sue non luci.
Le fotografie, la somma delle fotografie, degli archivi mobili e pesanti anche, insomma: contraggono – contraggono solidificate(si) possibilità – tanto che la potenza stia possibilità, tanto che divenga potere.
Ora, la fotografia, e il suo paganesimo irriconoscibile (perché entro un contrarsi è schermata non altro, che decidibilità), la fotografia elude ogni sostanzializzazione del medium come del mezzo – Flusser lo chiama come apparato. La veglia delle fotografie attende alla modernità, alla sempre recente scissione, alla sempre riprendibile separazione.
Il paganesimo fotografico – vuol dire che la fotografia, giocata sulla referenza (fuori, oltre la finzione scritta da luce: c’è un modo che viva…), verifica sempre una chiamata d’altrove, che però, essa stessa fotografia, si incarica di non ascoltare assecondare, è pagata per disattivare e spegnere: la vita fotografica è un gioco a due, una tragedia bloccata: Antigone sola, con la morte del creante. Se ci fosse terzo d’agio, se lo spettatore avesse davvero il posto suo nel gioco di fotografia, come riguardante capace di attivare una modernità: la novità ogni volta dello sguardo presente a fronte del fotografato, allora fotografia sarebbe una cartolina di un quadro di Raffaello di trasfigurazione di monte Tabor con Apollo, qui, lì Dioniso, cioè una chiara distribuzione di forze e controforze…
II. Ghirri non è un fotografo, se non perché vendeva foto e insegnava a fotografare (meglio: il fotografare) e usava apparati, e apparecchi, di fotografia. L’immagine, entro cui Ghirri è accasato, medializzazione di una traccia: Ghiri blocca tanto il mezzo istallandosi nel medio, cioè nel fatto che io non fotografo mai questa realtà o questa immagine, ma sempre e soltanto una pura fotografabilità: una esigenza di lasciarsi appiccare di memoria – blocca tanto la traccia, si blocca a tracce di fotografia…
L’immagine di e con Ghirri ripete in quanto non è un mezzo – istituisce in quanto non è una forma. Si opera quella apertura in cui, solamente, la vita e una misura di spazio e di ritmo stanno – mai insorgendo.
L’immagine ghirriana è mediale traduzione, una intensità tradotta: la vita non è data, ma ri-versata… L’immagine, qui, non è una fotografia, ma piuttosto: l’immagine di una fotografia in quanto traccia, ripercuote scissioni – ma non le modella come in-decidibili.
Ghirri elude la solidità tanto strumentale quanto mediale – insedia la non luce della luce come esposizione al e del limite. La giustapposizione immaginale qui si smarca da ogni filosofia e da ogni opinione: dal pensiero e dalla chiacchiera che si acquietino nella focalizzazione di una insorgenza. Il nuovo – Ghirri è, quanto la fotografia, un moderno… -, nella sua debolezza, irrompe solo come operazione che, non attardandosi presso alcuna disponibilità, e gestibilità e tollerabilità, può non ripiegarsi né in un affaccio (monadologico) né in una partecipazione (monistica).
III. L’immaginale che Ghirri schiude, quindi, può – la libertà, qui e ora in gioco, non è né uno foto-di-nichilismo né una neutralizzazione – questa libertà è la flagranza.
Se al bambino, quand’è bambino, togli il destarsi, cresciuto, crescendo, non esperirà alcun assoggettamento.
Perciò qualsivoglia critica – persino risonando nelle bolse valutazione da trivio… – meramente passa alla segnalazione di una esigenza: alla indimenticabilità di una lotta e alla immemorialità di una mediazione.
Trattare, avere a che fare con disfattismo e lassismo, fa segno a una scoperta inapparente, essa stessa, di mondi non misurabili – un mondo che impara.
L’immagine, libera alla sua insignificanza, è uno schema – lo schema è un ponte:
Questa immagine di lotta, l’immagine lotta perché libera non per né dalla vita, ma nel vivere – presso
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