Tratti
Di Vladimir D’Amora
1. Ricordi? Stavamo in pozzi di futuro, due o tre ominidi, nella spassosa essenza.Esistenti solo per contagio.
2. Mi è accaduto di essere formidabile; io mi donavo fantastico: inventando le relazioni stesse, e di me come degli altri. N’ero l’evento, come una pazzia, come irriducibile alle forme consuete, ero vero. E quando capitavo tra le braccia di un uomo o di una donna, tranquillamente passavo un rasoio, scolpivo la regolarità di uno strappo, la magia. Che intontiti, sfamati, restavano col ricordo che segnava il resto della vita e di ogni altro incontro. Se respirerò su questo pianeta ancora per anni imprecisati, io voglio esistere senza nulla da realizzare, nessuna aspettativa, se ho usato l’incompiutezza del tempo. Ed era appunto il mio dono. Io voglio essere.
3. Mi sono impasticcato di nuovo sole, poi ho preso il sonno in faccia, mi si sono rotte le ossa, quasi la presenza ridotta a blocchi di sensazione: le gambe. Due. Poi l’altra, la faccia, poi scavata dalla luce del televisore ch’era rimasto acceso, dopo che ho provato a leggere una pagina bianca sulla filosofia dell’espressione e ci voleva tanto vero, per finire la frase. Se forse volevo proprio scordarmi di tutto prima di azzerare la voglia di altro, io mi sono così impasticcato di luce come un animale fasciato dallo starci nella gabbia: o in un sole. Che chiedo: chi può venire a farmi visita se sono così coperto dal corpo tuo finito? Non può neppure accadere. Io non sono una donna piccola, non ho le mani piccole, non dita anche lunghe, non capelli come ali di strati di polvere. Io profumo. Spesseggio sempre, traumatizzato.Inferto alla vita mia con dolcezza. Se ho una impressionante quantità di collane, di storie; custodita con sicurezza e assurda speranza, al punto da relegarla in una specie di luogo stretto e che la costringa a strofinarsi, a starsene composta. E non in un abito diverso. O con un’altra intenzione, no. Io mi impasticco di fasci di luce e mi addormento. A sentirmi vissuto da parti orfane e beate sognando almeno i colori. Non le cose, non i corpi né le facce o me al collo di esseri che procedono sicché possa esserne il fendere quella fantasmatica porzione di mondo. Io sogno pallore, biacca accostata ai rossi del mare alto e impossibile e verde capitale e lattee aie di vetro quasi, poi gli opachi, gli azzurri. Mentre alle spalle, risvegliatomi, avverto ali spuntate dalle ossa staccarsi e premere me contro il lenzuolo e privato del basilare sostegno. E’ blocco, un’esplosione. Sarò angelo, assoluto.
L’immagine di copertina è Angelo caduto di Aurora Giuffria presa da artmajeur.com
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