Nota su: IL ROMANZO
Di Paolo Massimo Rossi
Si può ragionevolmente supporre che l’input per scrivere una storia nasca dai ricordi, da una frase sentita per caso, dalle chiacchiere tra amici, da un’immagine intravista per strada o al cinema o in televisione. O da tanto altro.
A mio modo di vedere, essenziale per scrivere è aver preventivamente letto: molto e di tutto, con dedizione e continuità.
Ma è anche da dire che nel desiderio di raccontare c’è la presenza di una insicurezza di fondo dello scrittore nei confronti della vita, accompagnata ad una latente e quasi inevitabile vanità.
La storia che si racconta è, necessariamente, fatta di parole.
Le parole: i costituenti essenziali.
Ritengo che compito/dovere di chi scrive sia la ricerca della precisione nella scelta delle parole.
In altri termini, esse devono identificare – senza possibile dubbio – un momento, un’atmosfera, un’immagine, un sentimento.
In qualche modo devono essere sufficienti a se stesse; non devono aver bisogno, in generale, di orpelli quali aggettivi, avverbi e locuzioni varie.
La scelta della parola deve rappresentare una ricerca – a volte spasmodica e critica – fatta nella memoria, in un dizionario, in un testo letterario o scientifico di altri autori
Gli aggettivi e gli avverbi svolgono un compito da “condizione al contorno”.
Non devono servire a rafforzare o arricchire la parola cui sono connessi: devono, piuttosto, scandire e dare ritmo alla narrazione.
Devono, cioè, equilibrare una frase, bilanciarla rispetto alla precedente o alla successiva. Naturalmente, tale impostazione non deve essere presa alla lettera: esistono delle particolari necessità della scrittura che possono essere soddisfatte solo con l’uso di aggettivi o avverbi funzionali, tout court, alla parola usata.
Lo scrittore deve saper decidere quando quelle locuzioni siano essenziali in particolare alla singola parola – limitandone ragionevolmente l’uso – e quando, invece, esse rappresentino una necessità del modo/linguaggio.
Essenziale, dunque e a mio modo di vedere, resta l’obiettivo, a carico delle parole e delle “condizioni al contorno”, della creazione del ritmo.
È questo che rende suadente il testo, pur non rappresentando il mezzo per suscitare l’interesse o per conoscere lo sviluppo e la conclusione della storia.
In altri termini, la storia deve coinvolgere il cuore e il suo bisogno di liricità; il ritmo le capacità razionali della mente e la sua curiosità.
In questa dicotomia dello scrivere è racchiuso, nel mio modo di sentire, il possibile/risultante fascino del leggere.
Resta il racconto, il canovaccio dove si esercitano la fantasia, la cultura e – last but not least – il desiderio di apparire di chi scrive.
Esso può avere una motivazione e uno svolgimento sicuri – se si vuole lanciare un messaggio etico, didascalico o di altro genere – ma può essere un continuo divenire, un work in progress (con un abusato riferimento letterario) che cambia per strada personaggi, vicende, conclusioni e atmosfere.
È da dire che, personalmente, non amo il revival di una frequentata modalità letteraria italiana: “L’enfasi sentimentale”. E cito, al riguardo, il critico letterario Filippo La Porta:
“… elementi tipici della tradizione italiana: enfasi – o ardore – sentimentale e recitazione delle passioni; moderatismo e messinscene, dimesse o sontuose che siano; diffidenza per la complessità lessicale e per la teatralizzazione dei conflitti; elusione del tragico e prevalenza di narrazioni emotivamente finalizzate. A ben vedere, le ambiguità e i travestimenti di questa narrativa sono gli stessi del suo pubblico.”
Una tradizione, aggiungo, che talvolta (e certo nei momenti più finalizzati alla creazione di una suadenza tesa a commuovere) si risolve nell’adozione compiaciuta di una mestizia – sorta di astuzia letteraria tesa a mimetizzare quell’enfasi – che vieppiù appiattisce, ammesso che ciò sia possibile, la maniera preventivamente impostata a caratterizzare storia e protagonisti: cioè l’immobilità (o la monotonia) cronachistica degli eventi narrati. Scelta che finisce per ammantare questi ultimi di una esteriore e formale luce poetica che, inevitabilmente, si rivela essere una monadica quanto anòdina (cioè che non prende posizione, lenitiva) rappresentazione dell’universalità delle emozioni.
L’immagine di copertina è Natura morta con Bibbia, di Vincent Van Gogh