Storie d’immigrazione tra memorie da seppellire e verità taciute
Di Laura Vargiu
“Quando non sai dove stai andando, ricordati da dove vieni” recita la saggezza di un proverbio africano. Non a caso, il giovane Ismail non dimentica mai la sua terra, un frammento infinitesimale di quello sconfinato continente nero da sempre calpestato, e a essa, in verità, desidera fare ritorno. Si è lasciato alle spalle la desolante situazione del Gambia, con la quotidianità dei suoi drammi e del suo amaro vivere, così come la lunghissima strada, lastricata d’insidie letali, che lo ha condotto in Europa. Tuttavia, in Italia, Paese a cui approda dopo uno di quei viaggi nel Mediterraneo per noi ormai di ordinaria cronaca, occorre fare i conti con una realtà avvelenata da pregiudizi, razzismo e ansia nell’attesa di un sì, o un no, da parte dell’apposita commissione cui spetta il compito di ascoltare e valutare ogni singola storia ai fini del rilascio del permesso di soggiorno con relativa protezione internazionale.
Attraverso una scrittura coinvolgente, bellissima nella forma e nella sostanza, Elvira Mujčić con questi suoi Consigli per essere un bravo immigrato (Elliot Edizioni, 2019) ci regala una piccola storia di grande impatto, invitandoci a riflettere su un fenomeno, quello dell’emigrazione, affrontato in modo di certo non ottimale da una macchina burocratica “totalmente priva di senso”.
“Usiamo parole come clandestino o immigrazione illegale in maniera distorta, attribuendo la colpa a chi arriva qui e si trova a vivere la condizione di clandestinità e non a chi ha creato un sistema per rendere le persone illegali.”
Non stupisce l’attenzione particolare riservata in queste pagine alle parole, poiché chi scrive è ben consapevole di come si attribuiscano “[…] nomi ingannevoli alle cose, nomi che ammantano di significati altri e illusori la realtà dei fatti.”
Non potrebbe essere altrimenti, del resto, da parte di un’autrice che ha vissuto in prima persona la dolorosa esperienza di dover lasciare all’improvviso la propria terra per ritrovarsi catapultata in una realtà geografico-culturale in gran parte nuova rispetto a quella in cui viveva in precedenza. Bosniaca nata in una cittadina serba, Elvira Mujčić, classe 1980, al pari del personaggio gambiano creato dalla sua penna, ricorda bene da dove viene; lo racconta con semplicità, durante una delle recenti presentazioni del libro a cui ho avuto il piacere di assistere, e con un tono pacato dal quale, d’un tratto, riemergono gli spettri abominevoli di un conflitto consumatosi neanche troppi decenni fa a due passi da casa nostra.
La sua voce, in un perfetto italiano dall’accento delicato che non tradisce in effetti alcuna provenienza estera, ripercorre ancora le strade di Srebrenica o rivede il buio della notte che, puntualmente, l’accoglieva in luoghi sconosciuti d’oltre frontiera man mano che fuggiva dalla guerra. Divertenti aneddoti linguistici, nel suo discorrere, si legano ai ricordi del tempo trascorso in un piccolo centro della provincia di Brescia, dove, venticinque anni fa, arrivò adolescente insieme alla famiglia, della quale mancavano però all’appello due componenti che non sarebbero più riemersi dall’orrore di quanto accaduto nella ex Jugoslavia.
E proprio il tema della sparizione crea un triste e macabro parallelismo tra la Bosnia ed Erzegovina e il Gambia (dove numerosi detenuti politici, caduto il dittatore Jammeh pochi anni fa, non sono stati più ritrovati all’interno delle prigioni), ovvero tra la vicenda personale della stessa Mujčić e quella d’Ismail, mentre la scrittura diviene, quasi catarticamente, ineludibile occasione per rovistare nella memoria. Gli affetti più cari, i legami familiari, quelli per la cui morte non era stato possibile stabilire “un dove e un quando”, si materializzano non solo come ricordi sfumati nel volo di fenicotteri rosa al tramonto, ma anche “come sottile mancanza” che, a suo modo, si fa lancinante presenza e come tale esige d’esistere.
Una prosa, a tratti, molto intensa e di grande profondità mirata a ricercare l’intimo dolore dell’essere umano che accomuna e affratella, poco importa che esso sia radicato in Africa o nella “civile” Europa; nel contempo, confida menzogna e verità (quella medesima verità che non è possibile raccontare a chiunque), intrecciandole nella impietosa denuncia di una realtà che non elargisce vero ascolto né giustizia. Il tutto mentre si cerca di comprendere se esistano o meno, per chi subisce lo status di estraneo e straniero, consigli per tramutarsi in buoni immigrati, onde evitare di essere bruscamente rigettati da una società di accoglienza che impone inossidabili stereotipi ai quali occorre aderire: l’immigrato privo d’istruzione e in costante bisogno economico, il profugo in fuga da guerre dichiarate ed eclatanti, il rifugiato stuprato e mutilato.
“Quello che ci si aspetta di ascoltare da un rifugiato è una storia devastante, più morti e torture ci sono, meglio è. […] Un’altra indicazione da tenere a mente è che una volta che si è scivolati giù per la scala della miseria e della sciagura è auspicabile non risalirla mai più. Oppure risalirla un poco, il giusto affinché tu sia sempre riconoscibile e non pretenda mai di arrivare a un livello pari agli abitanti del paese che ti ospita.”
E siamo certi che basti conoscere per comprendere? No, in verità, non è sufficiente perché, pur sapendo, diamo a situazioni e persone quei “nomi ingannevoli” di cui si diceva sopra. Quando saremo disposti a capire che si svolgono anche guerre latenti e silenziose, devastanti quanto quelle combattute a suon di mitragliate, che ciò che succede in Africa dal periodo postcoloniale a oggi è radicato nel dramma atavico della schiavitù e nelle scellerate politiche predatorie dell’Occidente, che non esiste come lingua comune – giusto per rasentare il ridicolo – l’africano, tout court, ma una miriade di parlate dall’arabo e berbero del Nord agli idiomi delle popolazioni più australi?
Un libro, questo della Mujčić, che esilia la banalità e l’ipocrisia dei luoghi comuni a favore della consapevolezza di quanto sia essenziale creare solide e concrete relazioni umane. Una lettura che, con la forza disarmante della parola, bussa alla porta della sorda coscienza di questo nostro tempo plasmato da slogan pseudopolitici sbraitati a gran voce che infiammano piazze e disumanizzano il cuore.
Narrativa
Elliot Edizioni
2019
90 p, brossura