Di Geraldine Meyer
Kamchatka. C’è sempre un luogo sicuro, dentro di noi
“L’ultima cosa che papà mi disse, l’ultima parola che gli sentii pronunciare, fu Kamchatka. Mi diede un bacio graffiandomi con la barba che non si radeva da giorni e montò sulla 2CV. L’auto si allontanò sul nastro ondulato della strada, una bolla verde che appariva e scompariva a ogni dosso, sempre più piccola, finché non la vidi più. Rimasi lì per un pezzo, la scatola del Risiko sotto il braccio, finché il nonno mi posò la mano sulla spalla e mi disse andiamo a casa”.
Comincia così Kamchatka di Marcelo Figueras, in Italia pubblicato da L’asino d’oro, casa editrice romana, nel 2014, nella bella traduzione di Gina Maneri. Un libro che, nato come sceneggiatura per l’omonimo film del regista Pineyro e uscito in Argentina nel 2002, ci racconta il periodo più cupo, nero e violento del paese sudamericano, attraverso la voce di un bambino.
Siamo infatti nel quartiere Flores di Buenos Aires, in quel 1976 che vide l’inizio di una delle più sanguinarie dittature che il mondo ricordi. Harry è un bambino sereno, con una famiglia come tante, padre, madre e un fratello più piccolo soprannominato Il Nano. Tutto normale, tra scuola, lavoro, giochi, fantasie e interminabili partite a Risiko che Harry ingaggia con suo padre. Partite che il bambino puntualmente perde, mentre suo padre si trova arroccato a difendere una regione, piccola rispetto al resto del mondo, ma strategica: la Kamchatka, appunto. E attorno a questa parola, a questo luogo che diviene metafora di un luogo sicuro sempre, a dispetto di ogni cosa, gira tutta la storia di questo bellissimo libro.
Senza mai nominare chiaramente ciò che sta avvenendo nel paese, senza mai raccontare di violenze, uccisioni, torture, Figueras ci racconta del golpe militare che cambiò totalmente l’Argentina e la vita di moltissime persone, attraverso la storia di Harry e della sua famiglia. Attraverso il loro “esilio” che li costringe a cambiare città, abitudini e identità. Harry non è, infatti, il vero nome del ragazzino ma quello che lui sceglie per sé per omaggiare Harry Houdini, escapologo divenuto mito personale, personale geografia dell’anima del bambino.
Eppure anche senza leggere di cosa accadeva in quegli anni di quotidiano terrore, noi avvertiamo tutta la tensione e il dramma della dittatura, attraverso il racconto di ciò che, improvvisamente, viene a mancare (la vita di tutti i giorni) e di ciò che all’improvviso diviene provvisorio, finto, come una recita, come un gioco. Padre e madre, coinvolti in prima persona nella resistenza al regime, devono scappare, devono costruirsi una vita finta in cui vengono, inevitabilmente, coinvolti, anche i due figli. La famiglia Vicente (questo il nome assunto per diventare invisibili prima di diventare desaparecidos) dovrà letteralmente simulare, fingere una normalità e una apparente serenità che, lo avvertiamo tutti, è solo il disperato tentativo con cui i genitori cercano di proteggere i figli. Non mentendo loro ma, forse, omettendo e trasformando tutto in un gioco; quindi nella cosa più seria che esista.
Proprio questo aspetto ha spinto molti a paragonare Kamchatka a La vita è bella, film di Benigni in cui un padre non dice al figlio che non sta accadendo nulla ma che ciò che sta accadendo altro non è che un immenso gioco il cui fine è fare più punti possibile. Qui non ci sono punti da accumulare ma c’è una sfida, un fingimento: fingere di essere qualcun altro per vivere un’avventura, per imparare a trarre ciò che di buono può trovarsi anche nelle situazioni più drammatiche.
Kamchatka è dunque non solo la regione di un gioco, non solo l’ultima parola che Harry sentirà pronunciare da suo padre prima di sparire con sua madre, ma sarà una parola magica, un invito del padre affinché suo figlio sappia trovare, in qualunque circostanza, quel luogo in cui nulla e nessuno possa fargli del male. Un luogo di resistenza anche e soprattutto morale, etica e umana.
Un luogo in cui ci si dice addio per l’ultima volta ma in cui le voci e le storie restano, parlano, ci accompagnano con la concretezza e l’evidenza di ciò che non sparisce mai. Il padre e la madre di Harry hanno già vinto la dittatura, hanno impedito che quel buio inquinasse per sempre la vita dei loro figli, e lo hanno fatto regalando ai loro bambini una vita comunque allegra, avventurosa. Fino all’ultimo. Fino a quando Harry capirà che suo padre, sconfiggendolo a Risiko, lo stava in realtà preparando a ben altro.
E questo insegnamento ce lo ritroviamo, noi lettori, negli stessi titoli dei capito di cui Kamchatka si compone, Prima ora: Biologia; Seconda ora: Geografia; Terza ora: linguaggio; Quarta ora: Astronomia; Quinta ora: Storia. Ce lo dice, ad un certo punto, lo stesso Figueras/Harry il perché di questo quando scrive: “Finché ci sarà vita in questo universo, nessuna storia finirà del tutto: si trasformerà. Quando moriamo, il racconto della nostra vita si limita a cambiare genere: non più un poliziesco, una commedia, una storia epica, ma un libro di geografia, di biologia, di storia.”
Romanzo
L'asino d'oro
2014
369 pp, brossura