Di Geraldine Meyer
C’è un legame tanto sottile quanto tenace tra questo Una yurta sull’Appennino e Il filo infinito di Paolo Rumiz. Un filo che è fatto di luoghi e di resistenza. Perché se Rumiz, proprio partendo dall’Appennino ci raccontava la storia di resistenza dei benedettini, a partire da quei luoghi, questo libro ci racconta di un’altra resistenza. Quella di chi non se ne va. Anzi torna e resta quando tutto sembrerebbe suggerire di andare via, di abbandonare. Di abbandonare quei luoghi, gli Appennini appunto, che già soffrono di uno spopolamento drammatico, amaro, che solo per chi ha occhi e cuore imbalsamati, può considerare inevitabile.
Questa è la storia di Marco Scolastici, nato a Tarquinia e che, con questo suo Una yurta sull’Appennino, ci racconta una storia che è sua ma che è anche corale. Una sorta di epica della resistenza, di attaccamento ai luoghi e, attraverso essi, alla loro e alla sua storia. Ma non si pensi al racconto di un destino già segnato, a una strada obbligatoriamente percorsa a ritroso. No, questo libro è qualcosa di più.
Marco è un ragazzo come molti, timido, con un rapporto non semplice con suo padre. Un ragazzo che, senza avere idee chiare sul futuro, parte per Roma e si iscrive alla facoltà di Economia e commercio, ospite della sorella, amica e interlocutrice preziosa. Pretesto per attraversare la vita con un gioco che i due chiamano “dieci anelli”, una specie di catena in cui una parola ne richiama un’altra. Una sorta di preghiera laica che diventa, qui, la struttura stessa del libro.
Neve, Parioli, Padri, Diario, Macereto, Terremoto, Respiro, Yurta, Trappola, Neve sono i titoli dei dieci capitoli, dei dieci anelli di cui si compone il libro. Che ha una genesi lontana, più lontana ancora del terremoto che ha ferito le terre dell’Appennino e che comincia quando Marco, a Roma, in un bar vede casualmente (casualmente?) una foto su un calendario. Cosa riproduce quella foto? Un vecchio acero sul Monte Bove, a Macereto, i pascoli su cui lavorava e viveva suo nonno Venanzio. E qualcosa scatta nella testa del giovane Marco che decide di tornare.
Tra maremma e Marche, tra transumanze e lavoro duro, arriva quel tragico 2016 in cui tutto cambia. Il terremoto ha distrutto tutto, case e vite, progetti e lavoro. Ma si può abbandonare ciò che ha rappresentato una vita intera? Marco decide che no, non si può. Così, in mezzo alla distruzione, davanti alla sua casa resa inagibile dalla forza delle viscere della terra, Marco pianta una yurta che diventa la sua casa, l’inizio di qualcosa di nuovo, di diverso. In mezzo alla neve, al freddo, a una vita che attorno a lui comincia ad assumere la forza centrifuga dell’abbandono, della resa, Marco compie un percorso a ritroso che è, per lui, anche l’unico per andare avanti.
La sua azienda deve proseguire, deve proseguire anche per quel legame, mai tagliato, con la sua famiglia, con quelle persone che, nel passato, hanno lavorato duro, sofferto e faticato. Macereto diviene così, il centro reale e metaforico di una ricerca, di un progetto, di una resistenza appunto, in cui uomo e luoghi sembrano divenire una cosa sola. Abbandonarli, per Marco, significa tradire sé stesso e tutto ciò da cui proviene. In un dialogo continuo, intimo e dolcissimo, con la sorella che non c’è più, Marco tesse la tela di un racconto in cui l’addio alla sorella torna ma come scintilla per non dire addio a tutta una vita.
Pagine serrate, tese eppure piene di speranza e amore. Perché qualcosa rimane sempre e sempre restituisce. Anche quando sembra impossibile.
Stile libero Extra
Diario.
Einaudi
2018
104