Cento anni fa si spegneva Amedeo Modigliani.
Intervista alla scrittrice Francesca Diotallevi.
Di Carmine Maffei
“Pochi artisti come lui hanno saputo mescolare piacere e dolore, joie de vivre e sincera percezione della pena del vivere, un senso addirittura febbrile del tempo che bisogna consumare, unito alla consapevolezza costante della prossima fine”
Queste sono le parole di Corrado Augias, nel penultimo capitolo del suo Modigliani, l’ultimo romantico (Mondadori), pubblicato nel 1998, un libro che ha il sapore di un romanzo, per il reale motivo che la vita del supremo artista che vi si racconta ha il ritmo di avventurose e spesso drammatiche sequenze biografiche.
Oggi ricorre il centesimo anniversario della scomparsa di Amedeo Modigliani, pittore livornese, ritrattista immenso e unico nel suo genere, che cercò l’ispirazione nella così lontana Parigi, Ville Lumière della Belle Epoque, nello stesso istante così vicina ai suoi ideali artistici, alle sue più ambite ispirazioni. Il 24 gennaio del 1920 il Cigno di Livorno si spegne all’ospedale de la Charité, in seguito alle complicazioni estreme dovute alla malattia che lo ha attanagliato fin da bambino, la tubercolosi. Amedeo trova rifugio nell’arte forse proprio grazie alla cagionevole salute, tanto che la leggenda narra che l’amore sia nato in seguito alla visita con la premurosa madre Eugenia al Museo Nazionale di Napoli. Durante l’infanzia e l’adolescenza infatti la signora Garsin, di origini francesi, accompagnava il figlioletto Dedo nei luoghi più caldi e salubri della costa italiana, quindi è molto probabile che tale supposizione sia vera, per quanto la Campania restava una delle mete più ambite.
Il giovane Amedeo incassa i colpi dell’improvvisa perdita di ricchezze della famiglia: il padre non ha la stoffa del commerciante e non riesce a portare avanti gli affari ereditati: si chiude in un silenzio di tomba e abbandona moglie e figli alla più infelice sorte. La signora Eugenia, molto colta, riuscirà a riportare un certo benessere organizzando una scuola privata tra le mura domestiche.
Si riesce così ad immaginare quanti sacrifici abbia dovuto affrontare la donna per salvaguardare la salute di Amedeo attraverso dei viaggi mirati, verso mete che avrebbero giovato alla salvezza di una giovane vita. Quando però intorno ai vent’anni il pittore lascia la natìa Livorno per abbracciare l’esperienza artistica di Parigi, si abbandona spesso a delle abitudini e a dei vizi che non possono combaciare con le difficoltà che ha subìto da ragazzo. Aiutato economicamente dallo zio Amedée, Modigliani soggiorna all’inizio negli alberghi, cercando di imitare in qualche modo lo stile di vita che si è lasciato alle spalle. Rifiuta qualsiasi mansione lavorativa che possa permettergli indipendenza, perché ammette che un artista deve riuscire ad andare avanti solo attraverso il suo dono più grande, le sue doti. Quando vengono meno le risorse Amedeo si rifugia in stamberghe di fortuna, spesso comprese di una sola stanza e senza servizi igienici, evitando di pagare di sovente l’affitto, cercando di guadagnare qualche franco realizzando ritratti ai clienti del Cafè La Rotonde, nel crocevia Boulevard Montparnasse e Boulevard Raspail, che in quel periodo pullula di avventori, turisti, curiosi e artisti, da poco trasferitisi dalla collina di Montmartre.
Modigliani tenta nel frattempo la fortuna anche con la scultura su pietra, ispirandosi all’arte africana, come Picasso. Purtroppo abbandona tale disciplina perché la polvere che respira, mentre modella con lo scalpello, finisce per respirarsela e i suoi polmoni non avrebbero retto a lungo.
Affranto si rigetta nella pittura, e viene colto da un’ombra che lo accompagnerà per il resto della sua breve vita; si abbandona all’alcool e alla cocaina, gettando al vento così i pochi soldi che guadagna, e lo si vede spesso in giro ubriaco, di notte, mentre recita versi del suo amato poeta Baudelaire e tante citazioni letterarie, passione che ha ereditato dal nonno Isacco. Tutti lo riconoscono col nomignolo Modì, abbreviazione del suo cognome, che nello stesso istante significa maudit, in francese “maledetto”.
L’incontro più importante della sua vita, dopo quello avvenuto col poeta e mercante d’arte polacco Léopold Zborowski, si svolse durante una festa in maschera nel 1917. Fu lì che conobbe la giovanissima Jeanne Hébuterne, e tra i due nacque un amore immediato e senza confini.
Ed è proprio così che comincia l’appassionante romanzo di Francesca Diotallevi, Amedeo, je t’aime, edito da Mondadori Electa nel 2015, che affronta la biografia della più bella musa ispiratrice di Modigliani, oltre che sua compagna più devota, da cui ebbe dono la figlioletta Jeanne.
Il periodo designato è proprio quello che corre tra l’incontro in quella festa nel 1917 e il drammatico epilogo avvenuto tre anni più tardi in un freddo gennaio del 1920.
Diotallevi affronta la narrazione in prima persona, vestendo quindi il ruolo di Jeanne Hébuterne, e allo stesso tempo stila un’interessante ritratto di Amedeo Modigliani, scoprendolo più nel suo ruolo di uomo che di artista, con le sue debolezze ma anche le sue forze intrise nell’arte, con le esagerazioni e i suoi limiti nel saper affrontare nel migliore dei modi un’esistenza da marito e padre di famiglia esemplari. Anch’essa pittrice, Jeanne, prima di conoscerlo di persona, sa chi è Modigliani, perché nella schiera di artisti di quel periodo viene anzitutto additato come un ubriacone irresponsabile e attaccabrighe, che distrugge i cuori delle numerose donne che incontra, in primis le sue modelle. In realtà Modì è un uomo dal fascino irresistibile, e tutte le sue ammiratrici lo ammettono, e quelle ombrosità che lo rendono così sfuggente non sono che il pretesto per corrergli dietro ancora una volta per meglio comprenderlo. Questo Jeanne lo sa, e non esita a sfuggire ai pregiudizi della sua famiglia, nucleo di sani principi conservatori, tra cui spicca la figura del premuroso fratello André, pittore anch’egli, nel frattempo partito per la guerra. Amedeo però resta ammaliato dall’incontro con la giovane Hébuterne, e si accorge che dalla sua relazione non solo gioverà un amore che non ha mai incontrato, ma ne nascerà la più grande ispirazione come modello di donna per i suoi ritratti.
Recita così Francesca Diotallevi, coi pensieri di Jeanne, in questo romanzo che ha il sapore della storia d’amore intinta nella più ammaliante esperienza commemorativa di una delle coppie più celebri del mondo romantico d’un tempo:
“Le nostre anime erano intessute di colori impastati sulla medesima tavolozza: i malinconici grigi, i blu profondi, i pallidi rosa. E poi il rosso, steso su larghe pennellate, che divorava ogni cosa, demoliva le convenzioni e si nutriva di sogni irrealizzabili”.
La forza di Amedeo, je t’aime sta proprio nel pensiero più profondo di una ragazza che tra le braccia di uno dei miti più indiscussi della Storia diventa prima donna e poi madre; che abbandona qualsiasi pregiudizio e critica e affronta una vita di povertà e di sacrifici accanto al genio, sorbendone le capacità artistiche e intellettive più intime e profonde, brandendo l’arma della consapevolezza di un’esistenza sempre al limite dei rischi e dell’ignoto, arrancando nel buio dapprima e poi con sana consapevolezza accompagnare nella luce della responsabilità colui che agli occhi dei critici era considerato un avventuriero senza via di scampo, un pittore povero dal discutibile talento che non si ricollocava in nessuna corrente. Modigliani era in costante litigio con tutto ciò che correva assieme alle tendenze stilistiche dell’epoca, perciò lasciava che gli altri sfilassero obbedienti nel loro gregge solo al di fuori della porta del suo atelier. Non gli importava se aveva voltato le spalle ai facili guadagni aggregandosi alla folla di ubbidienti. Lui era e restava fuori e ne andava fiero.
I colloqui che si affrontano nel romanzo di Diotallevi esprimono ciò in ogni pagina, dove si enuncia la sofferenza poetica che soltanto scrittori di una certa profondità intellettuale sanno far intuire.
“Non c’era nessuno che, più di lui, difendesse con tanta forza i propri ideali. Il coraggio con cui affrontava la miseria più nera pur di seguire i propri sogni, l’ostinazione a vivere per l’arte, solo per l’arte…E quel rifiuto assoluto di mettersi sulla scia d’altri, di seguire strade sicure, sempre fedele a sé stesso”.
La triste vicenda che seguì la morte dello sfortunato artista si colloca in questo romanzo sotto una nuova luce: il suicidio, che agli occhi degli increduli può sembrare un gesto folle e imperdonabile, assume la comprensione di chi ne attua l’estremo gesto e ne fa accettare la maturazione che viene alla luce durante tutto l’arco della storia. Togliersi la vita, per Jeanne, ha significato il ricongiungimento al suo amato dopo una vita breve ma fatta di equilibri precari, ma che urlavano all’unisono: lui per seguire la sua arte e lei per seguirne il genio nella disperazione più nera.
Nel libro di Francesca Diotallevi è chiaro che ambedue non possono separarsi neanche con la morte, perché se a tale punto di collisione col mondo ne sono giunti assieme, assieme varcheranno la soglia del buio che li ha stretti in un abbraccio senza scampo, e la sconfitta sottolineerà l’unione che ne fortifica l’estrema scelta, anziché deturparla, con la speranza che neanche l’ignoto possa adombrarne il gesto.
Francesca, nel tuo romanzo, parlando in prima persona, interpreti in qualche modo il ruolo di Jeanne Hébuterne. Tale immedesimazione, frutto anche di ricerche personali, ha alterato la considerazione che hai avuto su Modigliani ancor prima di iniziare a scrivere il libro, o ne ha accentuato la tua passione?
Ho
conosciuto Modigliani prima attraverso la sua arte, successivamente attraverso
gli occhi della sua compagna, e quello che posso dire è che la mia opinione di
lui come pittore non cambia: Modigliani era un vero artista, uno di quelli che
vivono costantemente nel tormento della creazione, alla costante ricerca della
bellezza. Ma era anche un uomo complicato: egocentrico, irascibile, alcolizzato
e ossessionato dal suo lavoro, talvolta agiva in un modo che una donna, allora
come oggi, non potrebbe (e non dovrebbe) tollerare.
Per dedicarsi intensamente solo ad Amedeo, Jeanne
annulla le sue ambizioni da eccellente pittrice. È una sorta di sottomissione
ad un estro più creativo, oppure solo la conseguenza di un amore travolgente?
È la storia di una giovane donna che si annulla per amore, che vede in uomo più maturo, in un artista così controverso, un riferimento, e si lascia fagocitare senza opporre resistenza. Jeanne continuerà a dipingere, accanto a Modigliani, ma è impossibile non notare quanto il suo stile vada uniformandosi a quello di Amedeo, fino a diventarne una sbiadita copia. Alla fine, l’influenza che Modigliani esercita su Jeanne è assoluta e totale, non le lascia scampo.
Nel romanzo esistono episodi in cui Modigliani inveisce, anche con violenza, contro la sua Jeanne, e addirittura la tradisce. Per quanto anche frutto di una tua invenzione, come credi si comportasse realmente Amedeo nella sua vita privata?
Le scene di violenza che ho descritto all’interno del romanzo sono frutto di testimonianze emerse nel mio lavoro di documentazione. Vero è che le testimonianze vanno sempre prese con una certa cautela, in particolar modo quelle che riguardano Modigliani (dopo la sua morte, improvvisamente, tutti erano suoi amici intimi e avevano qualcosa da riferire su di lui). Ma in quelle testimonianze ho trovato riscontro di alcuni atteggiamenti più volte riportati nelle biografie di Modigliani: la sua irresponsabilità, l’abuso di droghe e alcol, gli scoppi d’ira dovuti alla frustrazione di non essere considerato un vero artista e, su ogni cosa,la malattia. Jeanne è l’unica che sopporta, con silenziosa pazienza, l’inferno che Modigliani si porta dentro.
Resta impresso l’incontro tra Beatrice Hastings, vecchia fiamma di Modigliani,
e Jeanne Hébuterne. È davvero avvenuto? Perché secondo te Beatrice non è
riuscita a soccombere totalmente al fascino di Modì?
L’incontro
tra Jeanne e Beatrice, all’interno del mio romanzo, è frutto di invenzione, e
ho voluto inserirlo proprio per sottolineare la differenza tra queste due
donne. Beatrice ha più esperienza, ha viaggiato, ha avuto modo di emanciparsi
in maniera indipendente e vive del suo lavoro di giornalista. È una donna
appassionata, ma quando comprende che quella stessa passione potrebbe
annientarla (tra gli abitanti di Montparnasse erano tristemente famose le
numerose e furibonde liti tra Beatrice e Modigliani), riesce a fare un passo
indietro e a salvare se stessa. Jeanne no. Forse per la giovane età, e la
conseguente poca esperienza delle cose del mondo, forse per un carattere più
pacato e remissivo, Jeanne non riesce a opporre alcuna resistenza e si lascia travolgere
dall’egocentrismo e dal tormento di Modigliani. La “mia” Beatrice tenterà di
avvisarla, invano.
Per quanto anche frutto della tua fantasia, quasi alla
fine del romanzo sembra che tu voglia, tra le righe, incolpare Jeanne per aver
costretto Modigliani a restare a Parigi anziché ritornare in Costa Azzurra,
dove l’ambiente più salubre gli avrebbe allungato la vita. Quanto credi che sia
vero e nonostante tutto, quale sarebbe stata la soluzione più giusta?
Mi
dispiace che questo passaggio del romanzo sia stato intenso in questo modo,
perché la mia sola intenzione era mostrare Jeanne nella sua unica, fiera e
decisa, presa di posizione. Venne in seguito incolpata da Leopold Zborowski di
aver impedito a Modigliani il ritorno al Sud, e di aver così reso più rapida la
sua fine, ma io sono convinta che Amedeo decise di assecondarla solo e
unicamente in virtù della sua consapevolezza che la fine era comunque vicina e
che un ennesimo soggiorno al Sud non sarebbe servito ormai a nulla.
In seguito alla morte di Modigliani Jeanne si suicida,
al nono mese di gravidanza. Ragionando in maniera obiettiva e abbandonando per
un attimo il significato mitologico, qualora lo pensassi, quanto c’è di
sbagliato in questo gesto e fino a che punto potrebbe sembrare fatalmente giusto?
Io non giudico questo gesto, né intimamente, né tantomeno tra le pagine del mio romanzo. Quello che ho provato a fare, è stato raccontare la discesa all’inferno di una giovane donna che, all’inizio del Novecento, e dunque dovendo fare i conti con la mentalità dell’epoca e con scarsissimi mezzi di emancipazione, ripone la sua intera esistenza tra le mani dell’uomo sbagliato, un uomo incapace di prendersi cura di chicchessia, compreso se stesso, perché ossessionato dalla sua arte, e per questo motivo viene messa al bando dalla sua famiglia e dalla società.
L’ho immaginata brancolare nel buio, vittima di una depressione che da tempo le aveva fatto perdere il contatto con ciò che la circondava, con la vita, e non vedere altre alternative dinnanzi a sé in quella gelida alba del 26 gennaio 1920.
Esattamente cento anni fa, un lungo corteo funebre che accompagnava il pittore livornese arrivò al Père Lachaise. Perché all’improvviso tutti si accorsero di Modigliani e iniziarono a comprare in massa le sue opere? Fu la morte a coronarlo o comunque le sue aspettative sarebbero prima o poi state premiate?
Fu la morte a coronarlo, indubbiamente. Finché era in vita, Modigliani veniva bollato come imbrattacarte e nessuno, salvo il mercante d’arte Leopold Zborowski, era disposto a scommettere su di lui. I suoi quadri triplicarono il loro valore nel momento in cui morì e il suo corteo funebre si svolse con i compratori che speculavano e si contendevano furiosamente i suoi dipinti.
La burla di Livorno del 1984, gli innumerevoli falsi in giro per il mondo e venduti per veri, la grande beffa dell’ultima mostra in Italia nel 2017, dove pare che nessuno dei quadri fosse autentico…Perché secondo te, da studiosa, Amedeo Modigliani, tra gli artisti più conosciuti resta anche quello più oltraggiato?
Modigliani era diverso da tutti gli altri artisti della sua epoca: non apparteneva a nessun movimento (quando glielo domandavano, si portava una mano al cuore e rispondeva “appartengo solo a Modigliani”) e aveva uno stile artistico personalissimo, riconoscibile e piuttosto semplice da riprodurre (linee pulite e dritte, colore piatto). Inoltre, la sua prematura morte a 36 anni ha fatto in modo che le opere da lui prodotte fossero relativamente poche: molte le aveva svendute o regalate in cambio di cibo e alloggio, erano dipinti che all’epoca venivano considerati senza valore e spesso finivano a marcire in qualche cantina; molte altre opere sono state distrutte dallo stesso Modigliani nei suoi momenti di rabbia e frustrazione. La tragica morte dell’artista, l’immediata nascita del suo mito e il valore improvvisamente accresciuto della sua opera ha fatto sì che in tanti volessero sfruttarne la fama postuma, violandone l’eredità artistica e rendendolo uno degli artisti più falsificati al mondo.
Nota dell’autore dello scritto:
Desidero ringraziare, con inimmaginabili ardore e passione, l’autrice del romanzo “Amedeo, je t’aime”, l’immensa Francesca Diotallevi, che ha accettato con piacere questa mia intervista e mi ha chiarito passaggi importantissimi riguardanti uno degli artisti più incredibili del Novecento.
Ringrazio altresì la cortese disponibilità dell’ufficio stampa Electa Mondadori, che mi ha aiutato a contattare l’autrice nella maniera più semplificata che potessi immaginare.
E’ bello sentirsi parte di un mondo che ho sempre ammirato con rispettosa distanza, e ancora continuo a farlo.
Romanzo
Mondadori Electa
2015
247 p., brossura