Holbein – Gli ambasciatori
Di Gianrico Gualtieri
Credo che tutti conoscano il celebre dipinto di Holbein raffigurante gli ambasciatori Jean de Dinteville e Georges de Selve, conservato alla National Galllery di Londra:
Ancora più del dipinto è noto, forse, l’espediente anamorfico utilizzato da Holbein per piazzare in primo piano, nella forma oblunga non immediatamente riconoscibile a prima vista, quello che poi si rivela essere un teschio umano. Espediente col quale, secondo una pratica usuale nell’arte “colta” del Rinascimento, il pittore “figura” anche la propria firma: “hohle bein” significa infatti “osso cavo”. Spostandosi in un punto di vista sfalsato e angolato rispetto alla superficie e all’asse primario di lettura del dipinto, l’immagine del teschio appare nelle sue corrette proporzioni.
Un piccolo cartellino esplicativo posto a fianco al dipinto mostra un dettaglio del teschio anamorfico correttamente restituito, dato che oggi la sistemazione della sala non permette, se non in una certa misura, di porsi nel punto di vista ottimale.
Lo scaffale al quale si appoggiano, come a riceverne sostegno e dignità, i due ambasciatori è ricolmo, nel ripiano superiore, di strumenti scientifici tra i quali spicca un globo celeste con i disegni delle costellazioni. Nel ripiano inferiore un globo terrestre e riferimenti alle “scienze della terra”, tutte contraddistinte dalla “misura”, rappresentata dal compasso, e siglate dal liuto, che ci ricorda che tale misura è breve (un passo della scrittura compara l’uomo ad un liuto per la “brevità” del suo suono). Si tratta, insomma, del mondo e delle sue conoscenze emblematicamente riassunte nel tappeto che, etimologicamente, rinvia ad un insieme multiforme e variopinto.
Il significato del cranio in rapporto ai personaggi raffigurati e allo scaffale è fin troppo evidente: si tratta di una vanitas, cioè di una meditazione sulla inutilità ed illusorietà dell’uomo, del mondo e della conoscenza che l’uomo può averne. All’incirca in questi stessi anni Cornelio Agrippa scrive il suo “De incertitudine et vanitate scientiarum”.
Un po’ meno evidente è la dialettica “segreta” instaurata da Holbein all’interno del dipinto, dei quali il teschio e gli strumenti sono solo una delle due polarità. Alle spalle dei due personaggi si stende il “velo” della natura, nella forma di un broccato verde fiorito, oltre il quale non ci è dato vedere nulla, eccetto un dettaglio: nell’angolo superiore sinistro del dipinto, il drappeggio non coincide appieno con il margine del dipinto, mostra come uno spiraglio, una fenditura attraverso la quale si intravede il dettaglio, in scorcio, di un crocifisso appeso al muro, su una parete perpendicolare alla superficie del dipinto. Lo scorcio del crocifisso è complementare all’altro, orizzontale, del teschio anamorfico.
Ora ci è dato di cogliere la dialettica interna che è il vero soggetto del dipinto: alla morte dell’uomo e alla sua orizzontalità fa riscontro la morte di Dio, al visibile l’invisibile, al quale si accede attraverso la mediazione ed articolazione della forma della croce. Alla vanità come inconsapevolezza fa riscontro la consapevolezza della propria vanità che è via e principio di salvezza.
Forse Holbein aveva in mente, nella concezione del dipinto, quel passo nel quale S. Paolo, parlando della croce, auspicava che ognuno potesse comprendere, “con tutti i santi, quali siano la lunghezza e la larghezza, l’altezza e la profondità”.