Si è formato in anglistica, italianistica, comparatistica e traduttologia in Italia (Università degli Studi di Pavia, dove è stato alunno dell’Almo Collegio Borromeo), Irlanda (University College Dublin e Trinity College Dublin) e Nuova Zelanda (Victoria University of Wellington e University of Auckland). È docente di Translation Studies e Italian Studies nella School of Languages and Cultures della Vicotria University of Wellington, in Nuova Zelanda. Ha dedicato la sua attività scientifica allo studio, alla traduzione e alla ricezione della poesia di due premi Nobel per la Letturatura: Eugenio Montale e Seamus Heaney (di cui ha curato diverse raccolte e il Meridiano, e di cui sta curando l’edizione definitiva delle opere con un gruppo di lavoro internazionale). In riviste, antologie e volumi ha curato e tradotto in italiano poesia irlandese e neozelandese e in inglese poesia italiana ed elvetica. Il suo lavoro di traduttologo si è rivolto a Synge, Joyce, Beckett, Dante, Leopardi, Montale e, attualmente, a W.H. Auden e a Primo Levi. Ha pubblicato cinque raccolte di versi: Assenze (2005), Alibi (2011), Prove di canto (2013), Tagli (2014) e Passaggi (2017). L’Italia e la Polonia hanno riconosciuto il suo impegno nella cultura conferendogli il Cavalierato dell’Ordine al Merito (2013) e la Medaglia Zasłużony Kulturze Gloria Artis (2014). Per i suoi scritti sulla poesia di Montale ha ricevuto il Premio Montale fuori di casa per la critica letteraria (2018). Per le sue traduzioni della poesia di Heaney gli è conferito il Premio Lerici Pea per la traduzione (2019).

Il tocco di ciò che accade

Di Marco Sonzogni

Itzhak Perlman, uno dei più grandi strumentisti del nostro tempo, dice ai suoi studenti che bisogna suonare «by feel» e che suonare il violino è suonare «by braille». Nella lingua spagnola, del resto, suonare si dice tocar — un’esperienza fatta di tocco ed emozione, tecnica e coinvolgimento, tranquillità e ossessione, traduzione e originalità.

            Mio fratello Gabriele, che suona il violino, non ha mai perso occasione per rimarcare come per me, apprendista pianista, il tocco fosse una questione molto più semplice. Ci sarebbe da approfondire questo aspetto perché porterebbe ad una più profonda consapevolezza del tocco in tutte le sue dimensioni, preparando il lettore che non abbia suonato uno strumento o coltivato interessi musicali ad una più piena partecipazione del libro in questione.

            Ad ogni modo, il protagonista del primo romanzo di Mirt Komel, Il tocco del pianista (Pianistov dotik, traduzione dallo sloveno di Patrizia Raveggi, Carbonio Editore, 2019, 170pp, € 15.50) si chiama Gabriel e anche per questo, forse, mi è stato subito simpatico. E da subito le sue iniziali gemelle, G. G. per Gabriel Goldman, mi sono sembrate perfette per un pianista con l’ossessione del tocco — proprio come quelle di un altro genio della musica contemporanea, pianista e perfezionista pure lui: Glenn Gould. (Ha proprio ragione Montale quando dice, in una delle sue occasioni, che il nome agisce…).

Mirt Komel (Foto da aranestorie.it)

            Komel è un accademico e scrittore sloveno quarantenne con la fissa del tatto, che da centro di gravità dei suoi studi filosofici è diventato anche cuore pulsante della sua scrittura creativa. Una sovrapposizione che si sente dall’inizio alla fine del romanzo, quasi sempre come valore aggiunto; di tanto in tanto, sì, appesantisce un pochino la narrazione, ma anche in quei rari frangenti si tratta di una pesantezza tutto sommato funzionale: contribuisce a trasmettere la compulsione che attanaglia il protagonista.

            Non voglio entrare in possibili riverberi autobiografici del romanzo — non ne aumenterebbero né diminuirebbero il valore letterario — ma un aspetto credo sia giusto segnalarlo. Quando lo incontro a margine della presentazione milanese del suo romanzo, Komel ha tutta l’aria del filosofo e dello scrittore. Si accorge che lo fisso per qualche istante e gli dico apertis verbis che devo togliermi un peso: così gli chiedo se sia anche musicista – voglio vederci chiaro, gli spiego, voglio capire se la credibilità del tocco del pianistra che emerge dalle pagine del suo romanzo sia frutto della mente o delle mani o di tutte e due le cose. Mi dice di avere preso lezioni di pianoforte per comprendere a fondo la questione del tocco. Non sono certo sorpreso dalla sua risposta, anzi mi sento rincuorato: chi ha scritto queste pagine ha toccato con mano.

            Non so perché ma l’ipnosi della G continua la sua presa e mi fa uscire dalla bocca un passo dal vangelo di Giovanni: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». A volte per credere bisogna davvero toccare, mi giustifico, e in ognuno di noi rivive Tommaso, che lo si ammetta o meno. Mi guarda un po’ perplesso, sembra spaesato, e allora riprendo un altro passo evangelico più per toglierci dall’impasse che per rincuorarlo: «Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera». Sorride, sollevato e soddisfatto, e possiamo parlare liberamente di musica e di letteratura – e del suo romanzo.

            Un libro-concerto, per così dire, scandito in undici capitoli godibili tanto nel loro insieme narrativo quanto singolarmente. Lo dico perché quando ho letto il romanzo per la seconda volta la modalità è stata volontariamente shuffle e mi ha permesso di cogliere sfumature e sensazioni rimaste in sordina alla prima lettura. In entrambi i passaggi il capitolo iniziale è quello che mi ha toccato di meno: non è certo una novità che un incidente sia espediente ideale per dare il la allo spartito della trama. Qui Gabriel si sveglia, «naso in un respiratore», dal coma in cui sembra essere sprofondato a seguito di una caduta «con la faccia sull’asfalto», come uno di quei personaggi minori dell’Iliade che per una causa o per un’altra finisce scaraventato a terra dalla sua biga deragliata, bocca nella polvere. Con un’intelligente e piacevole punta di (auto)ironia, che scorre in filigrana attraverso tutto il romanzo, l’autore rassicura subito che Gabriel non è in pericolo di vita né lo sarà, salvo inversioni-a-u autoriali dell’ultimo momento. E infatti il lettore lo trova, Gabriel, ristabilito fisicamente e (forse) anche mentalmente, alla fine del romanzo.

            Già che si parla di inizio e di fine, vale la pena sottolineare che il libro si apre con la parola «tenebra» e si chiude con la parola «nulla». Proprio come accade a un concerto. Il buio e il nulla della sala si riempiono di luce e di pubblico per poi svuotarsene. In mezzo il tocco di chi suona, rinnovato per ripetizione. Si può dire, evitando qualsiasi spoiler, che la vita di Gabriel – incastonata tra un trauma che minaccia di interromperla e la guarigione che la resetta, e narrata attraverso i luoghi, la cultura e le persone che la declinano – si compia tutta nel segno della musica e del tocco. Il tocco del pianista, appunto: assoluto e ossessivo. Tocco che conferma e cambia; che conforta e conturba; che comprende e condanna. Tocco come indispensabile chiave conoscitiva, irrinunciabile fraseggio esistenziale, inevitabile metamorfosi psico-fisica, inesauribile indagine filosofica.  

            Chi predilige il pianoforte come strumento da ascoltare o da suonare potrà seguire Gabriel in questa spirale di ri-conoscimento di sé, degli altri e del mondo attraverso il tocco, trovandosi sospeso insieme a lui tra conflitto e condivisione, empatia ed esclusione, fobia e felicità, intuito e intransigenza, resistenza e redenzione, legame e libertà. Tocco che è traduzione consecutiva di polpastrelli, dita, mani, polsi, gomiti, braccia, spalle, busto, cuore, testa, anima, tasti, pedali – e sgabello, scelto per l’immagine di copertina (e se una sedia avrebbe forse evocato troppo presto il fantasma del pianista ossessivo per eccelleza, Gould come ho già ricordato, un close-up sulla tastiera, con o senza mani, sarebbe forse stata, per quanto previdible, più toccante). Tocco che è traduzione simultanea di pensiero e azione, dubbio e scelta, paura e coraggio, silenzio e suono, prima e dopo, malessere e benessere.

            Da traduttore professionista sono abituato a stare sempre in mezzo. Se i miei studi di filologia slava sono un ricordo troppo lontano per potermi addentrare con cognizione di causa nella qualità della traduzione, posso perlomeno dire che il testo italiano del romanzo di Komel si lascia leggere senza ritardi di comprensione e dunque senza insofferenze e senza inquisizioni.

Voglio quindi pensare che il tocco del traduttore non abbia tradito quello dell’autore.

            Da pianista dilettante ho dovuto affrontare comunque la questione del tocco. Nelle mie dita sono ancora impresse le ore di studio e gli spartiti che ho studiato; la mia mente e il mio corpo sono ancora scossi dai toni e dai tempi della musica che ho eseguito in modo imperfetto e incompiuto. Ecco, questo ha fatto per me il romanzo di Mirt Komel: ha rianimato il mio tocco, la mia esperienza dell’ossessione, la mia ricerca (per quanto fallimentare) della perfezione.

Voglio quindi pensare che il tocco dell’autore possa risvegliare quello del lettore.

            Un’ultima nota. L’immagine più toccante del romanzo, per chi scrive, è l’ultima – perché ha l’intensità di quella musica, citando ancora Perlman, che «kills you in a good way».  Leggere per essere toccati.

Il tocco del pianista Book Cover Il tocco del pianista
Mirt Komel
Narrativa
Carbonio Editore
2019
170 p., brossura