Le pecore si contano a maggio
Di Oreste Verrini
Seduti sulla terrazza di casa io e Silvano Scaruffi parliamo. Lo facciamo per la prima volta, se escludiamo le poche indicazione che lo scrittore emiliano – nativo di Ligonchio in provincia di Reggio Emilia – mi ha dato per raggiungerlo. Inevitabilmente è anche la prima volta che ci vediamo, non sarà fortunatamente l’ultima; solo la prima di tante altre.
Di lui avevo letto Un problema di creature mannare a Ligonchio, e mai mi sarei immaginato, dovendo pernottare nel suo paese natale, di incontrarlo. Che sia successo è merito di un’altra scrittrice di questa montagna, Normanna Albertini, che con sapere e competenza tutta femminile ha fatto in modo di organizzarlo.
In attesa del caffè, che Silvano gentilmente mi offre, parliamo di tutto, come spesso succede tra due sconosciuti. La sensazione di avere davanti una persona singolare, originale e tutt’altro che semplice da inquadrare, è presto confermata. È molto gentile, interessato, curioso di conoscere me ed i motivi che mi spingono a queste altitudini ma, nel contempo, scorgo una punta di difficoltà e di sano disinteresse. Silvano Scaruffi, osando etichettarlo, ama scrivere, molto meno parlare.
Troverò conforto su quella definizione mesi dopo, durante la cerimonia di premiazione del premio Raffele Crovi a Castelnovo Ne’ Monti, quando alla richiesta di un giurato di raccontare del libro, Scaruffi contrappose un silenzio divertito e alla domanda – vuoi aggiungere qualcosa? – ribatté candidamente, – no! –.
Scrive bene, non c’è che dire, e lo fa raccontando del proprio appennino, quello Tosco Emiliano, arricchendo i suoi romanzi con personaggi ben caratterizzati, figli della montagna, della storia e delle tradizioni che solo qui, più che in altri posti, sopravvivono.
Leggo queste poche righe:
“Sta vodka qua,” disse il Creativo indicando la bottiglia in mezzo al tavolo “me l’ha portata mio cugino Chiolla che è stato in vacanza in Russia con quella badante che cià adesso, vacca schifaladra.”
Bobla aggiustò gli occhiali sgangherati e avvicinò la faccia alla bottiglia. “C’è un filo dentro!” Esclamò.
“È una spiga di grano, intronato, là usa così, schiffalurida.”
“Ma io non la voglio la vodka.” Piagnucolò Bobla tanto che l’altro gli riempiva il bicchiere.
“Butta giù, maledetto te, che questa qua è tutta roba naturale:”
“È meglio se bevo una Cocacola.” Bobla incrociò le braccia sulla pancia grossa facendosi indietro.
“Ma cosa vuoi cocacolare!(…) e non posso fare a meno di ripensare alle persone che ho incontrato uscendo dall’albergo, impegnate in una partita a carte e incastrati in eterne discussioni. Sono le stesse, una copia romanzata, di alcuni di loro. Un affresco surreale ma veritiero, tutto sommato, dei personaggi che popolano borghi sempre più vuoti e isolati, lontani dai centri di pianura dove la vita scorre frenetica, ricca di impegni e appuntamenti.
Persone che mantengono intatti comportamenti vecchi come le montagne, persone dure e spesso crudeli, ma capaci, se necessario, di grandi gesti di altruismo e umanità.
Le pecore si contano a maggio, racconta una sovrapposizione di storie, una serie di eventi forse all’apparenza scollegati che con il dipanarsi della storia però convergono verso un unico finale. Un romanzo a tratti surreale – uno dei protagonisti è impegnato a scappare da extraterresti intenzionati a sostituire i pochi umani originali, mentre altri due, più comprimari che attori principali, sono impegnati a scoprire cosa si nasconde sul fondo dei bocàri, macchioni di erbe infestanti e rovi –, ma che a ben vedere, con tratti di autentica ironia e lucidità, riesce a narrare la storia del mondo in cui Scaruffi vive.
La scrittura è vivace, ben caratterizzata e nuovamente, originale:
(…) me lo sono trovato davanti per caso, fitto e impenetrabile, stretto puntuto filaccioso e buio. Giù per la riva fino al limitare dei castagni. Il groviglio si estende come asfissiante marea verde, le cui onde sono frullare di foglie e scricchiolare di liane avvolte in raspanti spire. Stava lì e a forza di fissarlo mi è parso di vederci qualcosa sul fondo, tra tutto quel vegetume, quelle spine, che se ti azzardi anche solo ad allungare una gamba e molli il peso sei buono anche a sprofondare qualche metro prima di picchiare sul suolo che sta occultato in fondo, invisibile e sassoso. Così mi è venuta l’idea che se da qua voglio andarmene, se voglio davvero farlo senza lasciar traccia, senza che la Darlintonia prima mi cerchi piangendo, poi mi sguinzagli dietro i carabinieri per avere un mantenimento, poi magari mi seppellisca in contumacia e mi porti dei fiori ogni settimana, freschi, e poi ogni due mesi, di plastica, se voglio evitare tutto questo mi sono detto, devo trovare un varco, che mi porti oltre.
Un libro da leggere, un autore da conoscere per chi già non ne avesse sentito parlare. Uno scrittore che per sua stessa ammissione, sembra avere una missione. La racconta cosi, dal rivolto di copertina “Scrivo da un avamposto di confine, selvatico, montano, inaccessibile. Di popoli aggrappati a costoni rocciosi, compatti, taglienti. (..) Scrivo di una nazione a sbalzo sul vuoto, di un mondo lasciato a se stesso, avvelenato nelle idee, obbligato a dissipare lingua e folclore. Un mondo che vive di ritmi arcaici, gesti saggi, presidio umano di ettari di primitiva natura”.
Narrativa
Abao Aqu
2017
303 p., ill