Sulla rotta alpina, con chi non ha più nulla da perdere
Di Geraldine Meyer
Dodici chilometri possono essere pochi oppure tantissimi. Possono essere un semplice spostamento o l’attraversamento dell’inferno. Possono essere un semplice spazio oppure un frammento di vita. Questo bellissimo e durissimo Ancora dodici chilometri di Maurizio Pagliassotti, edito da Bollati Boringhieri ci parla di dodici chilometri di vita e di morte, quelli che costituiscono ciò che i giornali chiamano “rotta alpina” e che, spesso, saltano alla ribalta della cronaca per quella sempre più arrogante manipolazione e strumentalizzazione politica che ammanta, come un velo nero e mefitico, la questione migratoria. Sono i dodici chilometri che separano l’ultimo paese italiano, Claviere, da Briancon, piccola cittadina francese al di là del confine. E sono i chilometri percorsi, in condizioni che ci piacerebbe definire disumane se l’umano non fosse anche questo, da migliaia di uomini, donne bambini che altro non cercano che un poco di salvezza e una vita migliore.
Migliore di quella che si lasciano alle spalle e, spesso purtroppo, migliore di quella che andranno realmente a trovare. Sono i chilometri percorsi da quella umanità invisibile (perché preferiamo non guardarla realmente ma lasciare che a raccontarcela sia la televisione e l’imbarbarimento della politica) che se solo guardassimo davvero ci schianterebbe con la sua forza, con la sua intelligenza e con la sua invincibile volontà di muoversi e di migrare.
Pagliassotti ci racconta, senza retorica ma con gli occhi quasi chirurgici del cronista, di questa “orda umana” in fuga da guerre, dalla fame e dalla miseria in cui li ha condotti il nostro opulento e immemore occidente, di questa umanità che attraversa l’Africa, i deserti, le torture delle carceri libiche, che sale su barconi che affondano perché non possono non fare quello che fanno. Perché da perdere non hanno più nulla, neanche la vita di cui la morte è solo una delle tante declinazioni e, per loro, nemmeno la più spaventosa.
Ed è proprio questa loro disperata forza che ce li rende indigesti, anche senza averli mai visti, intontiti come siamo da una propaganda messa in atto per distrarre, per incanalare la rabbia dei miserabili nostrani contro altri più miserabili di loro. Perché le migrazioni sono, prima di tutto questo, una questione di povertà, di economia e di politica che necessiterebbe l’analisi della complessità, non la criminale semplificazione di politici a caccia di voti. Eppure. Eppure abbiamo lasciato che la questione migratoria venisse data in pasto come fosse uno psicofarmaco.
E intanto, attraverso quei dodici chilometri che in inverno possono diventare, e spesso sono diventati, una tomba di neve per tanti uomini neri, passa un’umanità che non vuole restare in Italia perché il nostro paese è diventato una latrina di razzismo e di cattiveria che, come tutte le malattie, non vuole sentirsi chiamare per quello che è.
La rotta alpina diventa, nelle parole di Pagliassotti, quasi una commedia umana, fatta di indifferenza, cattiveria, incuria culturale ma anche di contraddizioni, gesti belli e nobili, di solidarietà. In cui c’è chi aiuta senza chiedersi perché e, soprattutto, senza aspettarsi un grazie, perché tale aspettativa sarebbe solo l’altra faccia della medaglia della nostra cattiva coscienza.
Un libro molto duro, che non lascia scampo, che smonta pezzo per pezzo tanta ipocrisia, tanta criminale demagogia, anche della sinistra e, spesso, ahimè, della Chiesa e la chiusura mentale (oltre che la sostanziale lontananza dalla storia, vera, dei sovranisti italici e europei) di chi gioisce delle morti in mare come di chi parla al caldo della propria comodità. È un libro che non lascia speranza e non la vuole lasciare.
Scrive Bajani nella bellissima prefazione “La fortezza dell’Europa è un castello di carte, c’è poco da arroccarsi in difesa. Loro passano e vanno perché è un istinto che nessuno può disinnescare o rispedire al mittente. […] Spesso non dicono grazie a nessuno, semplicemente perché – ecco il vero scandalo, ciò che mette in crisi il sistema – muovono dall’assunto elementare, di specie, che la terra è di tutti.” Che poi si riallaccia perfettamente a ciò che scrive lo stesso Pagliassotti quando sottolinea che “Ciò che volgio fare nelle prossime pagine è togliere speranza, creare un sentimento che porti alla resa incondizionata rispetto alla speranza che questa armata possa essere fermata. Il razzista e il fascista figli dell’alienazione devono sapere che il loro gioire di fronte ai barconi che affondano o ai migranti che muoiono divorati dai lupi nei boschi delle valli torinesi è solo un passatempo privo di speranza, che gli viene dato al fine di non pensare al suo mondo saccheggiato.” Perché di questo si tratta, di un mondo in cui il sistema capitalistico ha creato alienazione e rabbia.
Ne parlo con Maurizio Pagliassotti per avere ulteriori spunti di riflessione
Le migrazioni date in pasto come diversivo. Leggendo il tuo libro arriva forte l’immagine di un mondo miserabile che viene anestetizzato con pillole di paura verso chi è ancora più disperato. Ma come si è arrivati, secondo te, a questo cortocircuito?
Credo sia un’esasperazione di una dinamica umana fuori dal tempo che acuisce quando vi sono tempi di insostenibile divaricazione sociale. Il cosiddetto crollo delle ideologie ha tolto la possibilità di lettura del reale a moltitudini, incoraggiate ad abbandonarsi ai propri istinti. Oggi l’odio dei penultimi contro gli ultimi ha sostituito la lotta di classe degli ultimi contro i primi.
Bisognerebbe smettere di usare parole vuote. Le migrazioni sono frutto del sistema capitalista. E se nemmeno la sinistra ha la dignità di dirlo, allora come si affronta la questione?
Resistere è compiere piccoli gesti, oggi. Ma non con uno spirito individualista e in una prospettiva di unità tra soggetti diversi che condividono, sebbene tra mille difficoltà, un minimo denominatore comune. La sinistra se è capitalista non è sinistra: men che meno se esclude dal suo panorama il processo di distribuzione successivo all’accumulazione.
Per te, come cronista e come uomo, che significato hanno le parole “frontiera” e “confine”?
Dipende dal contesto sociale in cui ci si trova. I migranti ad esempio vogliono i confini, perché sanno che li proteggono da ciò che fuggono in alcuni casi. Il confine, il limite e la frontiera sono soluzioni ubique, che a volte difendono, a volte dividono.
Nel tuo libro mi ha colpito molto quando parli di una sorta di anaffettività, quasi di indifferenza, dei migranti, anche e soprattutto, quando vengono aiutati. È un’immagine molto forte che parla, da sola, della nostra cattiva coscienza. Sono categorie psicologiche e culturali che la dicono lunga sull’occidente. Ma, credo, che proprio questa freddezza sia la vera chiave di lettura di tutta la questione migratoria. Non pensi?
La mia ovviamente è una pura generalizzazione. Ma, anche fosse di portata universale, la comprenderei perfettamente. Luca Rastello ci ha spiegato cosa è lo sguardo dei buoni sui poveri che vengono aiutati. Io ho incrociato lo sguardo delle persone che non hanno voglia di dire grazie, ed è giusto così. Saremo in debito per sempre, noi.
Tu dici che il tuo libro lo hai scritto anche per togliere la speranza ai razzisti e ai sovranisti, per dire che le migrazioni non si fermeranno mai. Il problema è che toglie speranza anche a chi questa consapevolezza già la possiede. Che valore testimoniale ha, dunque, un libro come il tuo?
E’ il mondo delle percezioni, questo. Ho scritto questo libro per dimostrare che di fronte alla forza di queste persone che superano questi ostacoli, non lontano da noi ma nel nostro Paese, si debba perdere la speranza. Rendiamo onore a questi uomini, donne e bambini che ci dimostrano la loro forza, la loro perseveranza. Noi abbiamo il dovere del coraggio anche solo per questo, al di là de nostri convincimenti.
Reportage
Bollati Boringhieri
2019
218