L’alba nera. Dylan Dog
Di Luca Morettini
L’esistenza si sviluppa in pochi e semplici modi: si vive e si muore. Talvolta si arriva a sopravvivere. Poi ci sono certi casi in cui si rinasce. Ed è questa la parola d’ordine, la missione che anima le pagine del numero 401 di “Dylan Dog”.
Parlare di questo nuovo numero, “L’alba nera”, non è facile. Perché si ricomincia tutto daccapo. E di fronte ad un inizio non si sa mai come muoversi, le prime impressioni possono risultare sbagliate. Ma questo inizio dietro di sé porta un lungo passato glorioso. Non a caso parliamo di un’icona nazionalpopolare del fumetto.
Quindi tutto diventa estremamente più complicato.
Facciamo un passo indietro: da qualche anno la testata “Dylan Dog” è stata affidata allo sceneggiatore Roberto Recchioni, nome che nell’ambito del fumetto racchiude un certo rispetto e competenza. E da quando il vecchio “old boy” è passato sotto le sue cure, è iniziato un lungo processo di cambiamenti e metamorfosi che hanno fatto impallidire i più irriducibili affezionati e fatto gridare all’eresia. Il tutto nel nome della rinascita e non della sopravvivenza, in quanto, a detta di molti e non solo di Recchioni, “Dylan Dog” era in un momento di stanca, bloccato nei soliti cliché e la qualità delle storie poteva dirsi carina, ma non di più. Per un fumetto dal profondo impatto emotivo, capace di rivoluzionare il settore in Italia tanto da arrivare a vendere centinaia di migliaia di copie, si trattava di uno stato vegetativo ingiusto.
Cambiamenti, dicevamo. E si sono visti, capaci di far crollare anche certe pietre miliari, riti, tradizioni che da sempre “Dylan Dog” offriva. Fino ad arrivare al recente “Ciclo della meteora”, una serie di storie dal numero 387 al 399 che vedevano come punto principale l’arrivo di una meteora gigantesca che avrebbe distrutto la Terra e “l’universo Dylan Dog” e il personaggio stesso come siamo abituati a conoscerlo. Ancora una volta, la fine non voleva dire morte.
Il numero 400 è stato il culmine di questa rivoluzione. Una storia capace di mischiare fantasia e realtà, vecchio e nuovo, arrivi e partenze. Racchiuse in quelle 98 pagine leggiamo della fine di un’era e prendiamo atto di una nuova che è appena iniziata. I figli prendono il posto dei padri. Nel senso più ampio del termine e chi ha letto la storia capirà, gli altri è speranza di chi scrive che s’incuriosiscano e corrano ai ripari.
“L’alba nera” è quella di un Dylan Dog dallo sguardo più disilluso, una figura ombrosa con indosso un lungo cappotto e dalla folta barba. Un bambino che sta iniziando a muovere i primi passi in quello che fino a due mesi fa era la sua realtà e nello stesso tempo quasi un sopravvissuto e non può essere altrimenti visto che ha tutto un mondo alle spalle, anche se non lo sa. È un’alba dove ciò che conta non è veramente sparito e questa cosa è l’anima del personaggio. Sta tutta nella storia, in parte un vero e proprio reboot del celebre numero 1 del 1986 dal titolo “L’alba dei morti viventi”, nello scenario che respira, in alcuni modi di dire e di comportarsi che ancora non l’hanno abbandonato. E soprattutto sta nello sguardo lontano lontano, ma non per questo assente, del suo creatore, Tiziano Sclavi. Non potrebbe essere altrimenti visti i rimandi e le affinità con un’altra sua creatura: Francesco Dellamorte.
Protagonista del romanzo del 1991 “Dellamorte Dellamore”, diventato tre anni dopo un film interpretato da Rupert Everett (ovvero l’attore le cui fattezze hanno ispirato i tratti di Dylan Dog), non tutti sanno che l’opera fu in realtà scritta nel 1983. In essa sono contenuti i primi segnali di quello che poi avremmo imparato a conoscere come l’indagatore dell’incubo. E adesso il cerchio si chiude. Ancora una volta il passato e il presente si prendono per mano e creano il futuro. Si cambia l’ordine degli addendi, anzi, si scompongono, mutano, evolvono, ma il risultato non cambia.
“L’alba nera” con la sua storia strutturata in modo impeccabile ricolma di piccole e grandi citazioni e supportata dai superbi disegni di uno straordinario Corrado Roi è stata una pura sorpresa che ha aperto una terza via alla lettura. Pensavo che una storia del genere e tutto il lavoro che ha portato ad essa, si potesse affrontare in due modi: o con l’ammirazione sconfinata e incondizionata per tale lavoro e chi l’ha creato o con l’odio più assoluto, soprattutto da parte della vecchia guardia di fan che non riconoscerà più il “loro” Dylan Dog.
La mia via è stata la rinascita. Della curiosità, della simpatia, dell’affetto per un personaggio diventato solo un caro ricordo. Perché, come già detto, non sempre la fine delle cose significa la morte.