LE DONNE “EMERSE” DI LEONARDO GUZZO
Di Carolina Montuori
Fin dal primo approccio col secondo libro di Leonardo Guzzo, ci si chiede cosa o chi siano le Terre emerse del titolo.
Hanno forse a che fare col contenuto delle tredici storie che compongono questa raccolta: varie e avvincenti, a mezza via tra il reale e il fantastico, narrate magistralmente dall’autore; ma più probabilmente la risposta si trova nel ‘grande nume’ che tutte le accomuna, il mare enorme e solitario, concreto o immaginario, da cui fluiscono continue, mirabili descrizioni di paesaggi e personaggi che si vorrebbero davvero incontrare.
In questa raccolta sembra avverarsi l’impossibile: trasferire il mare e tutte le sue sfumature sulla carta, senza correre il rischio di annoiare il lettore. Non è un mare solitario, quello di Leonardo Guzzo, non si esaurisce in se stesso ma sempre fa da trampolino verso il cielo, assecondando l’impulso innato dell’essere umano a guardare verso l’alto. Le onde, calme o impetuose, rappresentano sempre un riflesso e un impulso: catturano e rimandano a qualcosa di ulteriore, di spirituale.
Attraverso un processo di μεταμόρϕωσις, il mare e lo spirito che racchiude si riversano, all’interno di ogni racconto, nei personaggi che lo popolano, diversi per sembianze e vicissitudini, portabandiera di epoche, di epiche o di favole ma sempre accomunati dalla forte impronta della “penna” (un insieme di stile e sensibilità) dell’autore. Più che ne Le radici del mare, il suo libro d’esordio, qui Leonardo Guzzo dà spazio alle figure femminili, anch’esse varie ma costantemente segnate dalla cifra dell’autore. Anche solo una carrellata delle donne di Terre emerse può bastare a catturare lo spirito del libro.
Si comincia dalla trepidante popolana del primo racconto, simbolo del piacere sensuale di cui il protagonista non coglie l’occasione, dissuaso dal terrore della sifilide. Qui la donna – autentica “femmina” – è narrata in tutta la sua carnalità, premio di consolazione dei corpi e delle menti di tanti giovani che vanno a riachiqre la vita nelle trincee della prima guerra mondiale.
“Un culo come quello, quanto è vero Iddio, non l’aveva mai visto. Poco ma sicuro, porca vacca: niente come il culo di quella popolana bollente che gli si offriva da un balconcino malfermo, e poi si era calata in strada per strofinarglisi addosso. Era quando scendevano nei quartieri del Cairo, la Kasbah brulicante, e gli altri non facevano che andare a donne e lui invece teneva a vangelo le prediche di quello sporcaccione del tenente medico.
Si pentiva di non aver rischiato. Fanculo la sifilide, e ora rimpiangeva di non aver fatto l’amore”.
Sfogliando le pagine del libro (che davvero è come superare un’onda dopo l’altra), si trova poi una giovane povera di denaro e ricca di speranze, figlia di pescatori in un villaggio sperduto dell’Italia del sud. Candida Spinosa si chiama, e il suo nome trae origine non a caso dal latino candĭdus «bianco» o «senza macchia». Una luce, una purezza offuscata dall’incontro con un uomo rozzo e spietato, che fa spallucce ai “suoi valori come alle sue trecce” e si approfitta di lei. La ragazza, “svergognata” e guardata con sospetto dalla comunità, finisce per rassegnarsi e si immalinconisce: anche nella barca che la porta alla “fatica” si rannicchia “nella cuspide della prua” – in grembo il frutto della violenza – a testimoniare una secessione e insieme l’accanita speranza in un diverso orizzonte. Lo troverà per una via rocambolesca.
Leonardo Guzzo scive del suo disagio con grande saggezza: “Femmina non era il mondo, fatto dagli uomini perché gli uomini ci vivessero bene”.
La forte e al contempo fragile Candida, rea della sua giovinezza, il cui “male erano i vent’anni”, sembra scorgere soltanto negli abissi del mare – in un luccichio, in una voce – la promessa di una nuova dignità e purezza.
“Le altre donne sarebbero sopravvissute”, ma la ragazza si dissolve nel mare come in una favola di Andersen. Si adagia alla fine in un grembo ancor più grande del suo. Non è assurdo un parallelismo con la protagonista di uno dei più celebri racconti dell’autore danese, la Sirenetta che, in circostanze diverse rispetto a Candida, pure trova in “un tuffo” un mezzo per diventare immortale, “come una cresta di spuma sopra un’onda del mare…”.
Ed è proprio “nei meandri del mare, dove le cose restano invisibili e sembra quasi non esistano” che veniamo a conoscenza di un’altra creatura femminile, “dal dorso scintillante e gli occhi quasi umani”: la sfuggente donna-delfino.
La metamorfosi perpetua della figura femminile nei racconti di Guzzo approda, dunque, alla comparsa di un’entità che potremmo definire mitologica e che conquisterà il cuore del protagonista del decimo racconto.
Una sorta di un’indifferente donna-angelo, un “mitico” primo amore che s’incarica dell’iniziazione sentimentale del protagonista e gli dischiude come una specie di vaso di Pandora riempito di tutte “[…] le passioni del cuore: l’ansia e la paura, l’illusione e la speranza, fino allo scrigno della gioia”.
Ma, come il mare insegna attraverso lo scorrere delle onde, la forza inarrestabile delle tempeste e il vincolo delle maree, anche gli amori sono soggetti al mutamento. Non basta che l’innamorato sia un dio e usi ogni potere per imprigionare l’amata e il suo sentimento: anche il “principe delle maree” Abur Samantra sarà abbandonato, proverà l’assenza definitiva e il dolore, rabbioso e disperato, che sembra non passare.
La donna-delfino “andò e torno’ ancora molte volte insieme alle correnti finché un giorno, dopo molte volte, non fece più ritorno. Abur rimase ad aspettarla a lungo prima di capire che non l’avrebbe più rivista.
Il rombo delare uscì come sangue dalla sua ferita.”
Infine, nell’ultimo racconto, “intrappolata nelle sfrangiature” di uno scoglio sottomarino, ecco un’irraggiungibile conchiglia dalla corazza lucente: l’emblema della bellezza pura, che genera in chi la scruta a cuore aperto un sentimento profondo di liberazione e consapevolezza. Come sempre suggerisce di fare il vero amore, lo scrittore (un tutt’uno col protagonista senza nome di questa breve storia) si chiede quale sia il senso e il segreto di quella bellezza incandescente, oltre l’involucro della “veste preziosa”; che cosa davvero renda bella “quella e ogni altra conchiglia”. È forse la capacità di essere inconsapevole padrona di se stessa, di esistere profondamente, senza limiti e al contempo senza altre pretese, di arrendersi con entusiasmo alla propria natura.
A me piace pensare che ci sia anche dell’altro: che la conchiglia sia la crisalide di una nuova Candida, discesa negli abissi e pronta a una splendente esistenza marina; di una Candida riscattata, affrancata infine dai pesi allo stesso modo della Sirenetta emersa, guidata dall’amore e dalla libertà verso la sua autentica patria.
Racconti
Editore Pequod
2019
112 p., brossura