“L’uomo senza inverno” di Luigi La Rosa
Di Daniela Ginex
Vorrei cominciare con un grazie a Luigi La Rosa per avere illuminato queste cupe giornate attenuandone il grigiore apocalittico con spesse e brillanti pennellate di luce.
“L’uomo senza inverno”, come detto espressamente nella premessa al libro, non è una biografia. Pur svolto con accurata acribia – una ricerca minuziosa che ha impegnato l’autore per anni – la storia che si dipana nelle 430 dense pagine non risponde pedissequamente alla realtà storica. Il contesto è rigorosamente ricostruito, così come i personaggi e gli eventi che fanno parte della vita del protagonista; ma per penetrare nella profondità dell’animo del suo amato Gustave, l’autore è riuscito a fare quel salto di invenzione che è andare oltre la verità storica per restituirci quella dello spirito dell’uomo e dell’artista. E questo è lo stupefacente lavoro dello scrittore: dipingere un affresco in cui l’empatia e la commozione riescono a portare alla luce la verità al di là dei fatti documentati. Caillebotte non poteva che essere così: e perdersi nei suoi quadri è ritrovarlo nelle pagine di La Rosa.
La vicenda dell’uomo è strettamente intrecciata a quella dell’artista. Il giovane pittore scopre la sua vocazione molto presto, in buona parte ispirato da certi disegni della madre trovati fortunosamente in soffitta; la sua vena emerge giorno dopo giorno fino a trovare piena espressione nella partecipazione all’Impressionismo, la corrente artistica che segnò la rottura con l’arte figurativa come era stata concepita fino a quel momento.
La storia si dipana attraverso le vicende del pittore che, prima di trovare il coraggio di essere sé stesso, si appiattisce sull’imitazione conformista, inizialmente troppo timoroso di svelare la potenza del suo tratto rivoluzionario.
Al tempo stesso, Caillebotte scopre che quei corpi maschili che ritrae destano in lui un’attrazione che lo turba profondamente. Dipingere e amare uomini come Jérôme, Vincent e Antoine è una cosa sola.
È un percorso irto di dolori e amarezze, in un continuo confronto-scontro con un ambiente sospettoso e a tratti ostile. L’inquietudine che gli è compagna di vita lo porterà a cambiare spesso dimora o cambiare l’oggetto dei suoi interessi economici, siano le mostre pittoriche o le regate o la cura del patrimonio familiare.
“L’uomo senza inverno” non è solo la storia di un genio incompreso. È in senso ancora più universale la parabola di un uomo cui stanno stretti i limiti imposti da una società ottusa, la sia pur brillante e cosmopolita mondana società parigina, e che trova nel linguaggio pittorico un codice alternativo per esprimere la sua anima, una via di fuga ineluttabile per evitare di soffocare nelle pastoie delle grette convenzioni sociali. E la soluzione è conciliare quelle che l’autore chiama le due metà, le due anime della sua arte, quella tradizionalista e quella rivoluzionaria.
La chiave scelta da Caillebotte per affermare sé stesso è l’inizialmente incerto tratto di matita su foglio o di pennello sulla tela, quando decide di ritrarre quei corpi che non osa ammettere con sé stesso di desiderare.
La vicenda è narrata dall’autore con commovente partecipazione. Innegabile che Luigi La Rosa sia un romantico. Come non sospirare al palpitante bacio che Gustave scambia nel buio con il raboteur? O non raggelare al ritratto terrificante e disperato della morte che ghermisce il fratello più giovane?
Come già nelle opere precedenti, l’autore non risparmia l’espressione di passioni brucianti ed emozioni travolgenti, ma le coglie con tecnica impressionista, così che ne vediamo il baluginio come un riflesso su uno specchio d’acqua. Frammenti di passioni così intense da lasciarci senza fiato, ma anche effimere e inafferrabili.
Un romanticismo moderno, liquido come sono le infinite e sfaccettate cose della società attuale.
E con lo stesso spirito pittorico è ritratta Parigi, l’opulenta signora dei sogni dell’autore, con la sua luce cangiante e viva. L’incanto di Parigi che viene fuori in ogni stagione, sia nei grigi autunnali che sbiadiscono sui tetti di ardesia, che nelle silenziose nevicate che ricoprono i marciapiedi attutendo il passo della gente o nei boschi e nei prati che mandano i loro riflessi verdi nella Senna nelle sfolgoranti estati. La luce parigina si adagia scintillante sulle vetrine e sui bicchieri dei caffè brulicanti di vita.
Le descrizioni dell’autore catturano questa luce con una tecnica pittorica che riporta immediatamente alla nostra memoria visiva i dipinti impressionisti ben familiari. Ma la descrizione, nel restituirci anche suoni e rumori di quell’epoca, suggerisce anche una visione cinematografica, di quel cinema che sarebbe nato da lì a poco e che veniva anticipato da Degas nelle audaci inquadrature delle sue tele: e allora è come se quei quadri così noti prendessero vita.
La frenetica ricerca artistica di Caillebotte è condotta sul filo dell’assenza, quel vuoto che tutti cerchiamo di riempire e che solo l’arte può restituire. Nei quadri di Caillebotte, è il punto osservato dai personaggi ritratti, i quali evitano di guardare verso l’osservatore, ma piuttosto dirigono lo sguardo verso un altrove impossibile da definire.
L’assenza, ovvero l’anticipazione della morte, che colpirà il pittore con la perdita dei familiari, prima di sottrargli un inverno che non avrà mai modo di vivere.
E sarà l’arte a restituirgli l’immortalità: la tela rende immortale il genio e lo strappa alle rapaci mani della morte. E Luigi La Rosa ne rende perpetuo il ricordo con le sue vibranti e appassionate pagine.
Sarà lunga l’attesa della prossima fatica letteraria dell’autore, che noi catanesi soprattutto aspettiamo con ansia e desiderio.
Biografia romanzata
Piemme
2020
448 p., rilegato