Di Geraldine Meyer
Forse per avvicinarsi da subito al senso di questo libro bisogna soffermarsi proprio sul titolo: Civiltà Appennino e non Civiltà dell’Appennino. Perché questo libro, da poco mandato in libreria dall’editore Donzelli, e primo di una serie realizzata in collaborazione con la Fondazione Appennino, è qualcosa che assomiglia molto a un atto fondante. Che, come tale, parte da un approccio e da una lettura multidisciplinare in cui geografia, letteratura, paesaggio e storia confluiscono in una terra di montagne ma anche di scrittura. E, alla scrittura, rimandano anche le parole della presentazione al testo scritta da Piero Lacorazza e Gianni Lacorazza: “ L’Appennino è qui un palinsesto, non una ideologia: non una piccola patria ma una dorsale che attraversa Sud e Nord e tiene insieme l’Est e l’Ovest della penisola, presidiandone i tre mari.” Palinsesto è una parola interessante che rimanda anche, purtroppo, a un palinsesto di dimenticanze e abbandoni. L’Appennino è, infatti, la spina dorsale della nostra penisola ma anche la spina dorsale da cui partono costole di paesi abbandonati. E, non a caso, sempre nella presentazione, leggiamo: “La verità è che non è possibile pensare a un’Italia senza le sue aree interne, così come non è possibile pensare a un corpo senza spina dorsale. Il disconoscimento dell’Appennino, la sua consegna all’incuria e all’abbandono equivarrebbe, come ha scritto Pier Luigi Sacco, alla distruzione di un patrimonio culturale tangibile e intangibile secolare e spesso millenario.”
E allora arrampichiamoci tra queste pagine proprio come si farebbe, e si fa, per guardare e vivere i tanti piccoli paesi abbarbicati sull’Appennino, al singolare, proprio a rappresentare un’identità forte pur gravida di identità storiche e culturali. Appennino, dunque, quasi come baluardo alla globalizzazione della cancellazione di storie e di tradizioni. Un’arrampicata in cui, a farci da guide, abbiamo Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo, autori delle due parti di cui si compone questo Civiltà Appennino e intitolate L’Italia verticale e Appennino come Medio Occidente.
Due guide molto diverse tra loro, per linguaggio, stile e percorsi, eppure imprescindibili l’una dall’altra per comprendere “un luogo” che non è solo un luogo insieme di luoghi ma, soprattutto, una chiave di lettura per comprendere e tracciare una nuova metodologia storica che non si limiti a una successione temporale di cose e avvenimenti ma anche un’altra lettura geografica che vada oltre il semplice sud-nord. Appennino dunque come cerniera, come qualcosa che chiude ma apre anche, un confine inteso come traccia permeabile di storie che sono arrivate, che sono sparite e che, con caparbietà, restano. E che, quando se ne vanno, è per ricostruire altrove, un altro Appennino. Questo concetto è chiaro soprattutto nella parte del libro scritta da Lupo che, attraverso la letteratura, ci conduce nel vero cuore di questa terza direttrice, tra Adriatico e Tirreno, con uno sguardo all’ovest e uno all’est, terra di emigrazione, di fughe e ritorni ma, anche, di allontanamenti che tali sono rimasti. Scrive Lupo: “C’è un punto di Terra inquieta (2015) di Vito Teti, proprio nel cuore del capitolo dedicato al tema dell’emigrare, in cui compare una frase che l’autore ha strappato dalla bocca di un’anziana donna, emigrata in Canada: «La cosa che più desidero è tornare in paese. Ma non torno più. Ho tanta nostalgia. Vivo con la nostalgia del paese. Ma so che se tornassi perderei anche la nostalgia» La frase capovolge il punto di prospettiva, come tutto ciò che appartiene al lessico dei semplici, il ragionamento fissa una regola a cui forse avrebbe obbedito anche il grande Ulisse: è preferibile non tornare più nel luogo da cui si è partiti, meglio continuare a sperare in un nostos che ha le sue liturgie, i suoi ripensamenti, le sue crisi. Perdere la nostalgia è un assunto da utilizzare a chiave di lettura dell’esperienza appenninica.”
Ed è proprio da questo assunto che Lupo ci porta tra le pagine di Silone, D’Arzo, Crovi, Pomilio, lo stesso Nigro e Carmine Abate a ricordarci come una certa letteratura, quella appenninica appunto, forse altro non sia che un raccontar sé stessi raccontando un paesaggio. E forse è anche questo narrare l’Appennino. Come Nigro lo fa narrare, non meno letterariamente, dalla sua flora, dalla sua fauna e dal cibo, leganti culturali prima ancora che “naturali”
Saggistica
Donzelli Editore
2020
140