Mi capita spesso, in questi giorni lenti e senza pace, di pensare come avrebbe agito oggi Pasolini se fosse stato in vita, cosa avrebbe pensato, quali opere avrebbe prodotto, lui che era la voce contro. Sicuramente la rubrica che teneva sul Corriere della Sera avrebbe raccolto molti scritti sul Coronavirus, sulle cause scatenanti, sulla negligenza umana, sulle responsabilità disattese, sulle conseguenze nefaste del virus sull’intero pianeta.
Il suo tono sarebbe diventato duro, spietato, tagliente. Lui ,che incarnava lo spirito della disobbedienza, non si sarebbe tirato indietro di fronte a nulla, sarebbe diventato il portavoce degli ultimi, dei disperati, dei sofferenti. Tutta questa sofferenza rinchiusa, silenziosa, muta ma potente, sarebbe diventata nelle sue mani un film, un libro, un’opera teatrale. L’analisi sociale sarebbe stata spietata, nessuno sarebbe uscito indenne. Le impalcature delle comodità costruite dall’uomo sarebbero emerse nella loro fragilità.
La lunga e interminabile pausa alla quale siamo costretti sarebbe stata per lui necessaria e risolutiva in quanto le impalcature che sorregono il nostro sistema sociale stavano cedendo. La fragilità umana sarebbe emersa e l’uomo avrebbe dovuto reinventarsi un nuovo modus vivendi. Avrebbe fatto ricorso all’ecosistema malato in cui l’uomo viveva, responsabile del virus letale, della malattia dell’anima che uccide il corpo, responsabile della morte. Avrebbe parlato dei corpi martoriati, del contatti fisici annullati, della distanza di sicurezza che salva e che ci salva, ma che ci allontana ancora di più e ci isola. L’ultima sua opera filmica Salò sarebbe apparsa come suo testamento morale, l’universo orrendo di Salò avrebbe restituito l’immagine di un mondo sofferente e disperato.Mi torna in mente l’ironia amara di Pasolini che, abbandonava l’idea di una poesia quale confessione lirica, sofferto dettato autobiografico, come La religione del mio tempo (1961 e Poesia in forma di rosa (1964) per approdare alla severa misura, al tono retorico della poesia civile.
Penso al Pasolini degli anni ’70 critico della modernità (dell’omologazione delle conoscenze e della cultura operante direttamente dal potere e indirettamente dai mass – media), ma sempre in maniera fortemente contraddittoria (“per chi è crocifisso alla sua razionalità straziante, / macerato dal puritanesimo, non ha più senso / che un’aristocratica, e ahi, impopolare imposizione. // La Rivoluzione non è più che un sentimento”). Lui grande conoscitore dei classici, del mondo antico, avrebbe fatto ricorso agli Dei, che ora avrebbero punito l’uomo per le sue negligenze, per i suoi errori, per la sete di potere.
Pensiamo alla seconda fase dell’attività filmica pasoliniana che si apre con Edipo re (1967), prosegue con Teorema (1968), Porcile (1969) e si chiude con Medea (1970).
Pasolini rileggeva la realtà storica e la propria biografia esistenziale servendosi del mito e ricorrendo alla forma astratta dell’apologo morale.
Pensiamo al suo cinema sospeso tra memoria storica e percorso autobiografico, dove si parla di Edipo per alludere alla propria condizione di “diverso”, si evoca la figura di Medea per riflettere sul passaggio da una civiltà mitica ad una segnata dal culto del logos (“Sono un’altra creatura oramai. Ho tutto dimenticato: ciò che era realtà ora non lo è più”), si mette in scena la logica spietata del capitale che si nutre dei propri figli ribelli (Porcile) attraverso il raffronto tra selvaggi e popoli civilizzati che conduce il regista “a una regressione del presente rispetto al passato”.
La realtà allora era per Pasolini come un universo orrendo al quale non sembra più possibile contrapporre un progetto polito alternativo. Come è mostrato nel film Edipo re, con un Pasolini che dichiara che la “la vita finisce dove comincia”.
Mai come ora il riconoscimento maturato da Pasolini, che il sociale è un corpo morto e la realtà una dimensione che emargina, sarebbe apparso attuale, così come il suo volgersi indietro nel tempo (come nel periodo “mitico” ma con ben altre intenzioni) e spostare geograficamente ,ovvero antropologicamente il suo campo d’osservazione.
Il “positivo” Pasolini lo trovava fuori dall’Occidente, nella terra d’Africa (“Africa mia unica alternativa”) .
Così in Appunti per una Orestiade africana (1970) era presente il tentativo di trasferire il mito greco con le sue passioni assolute in un altro continente e in Appunti per un film sull’India (1969) lo sguardo smagato su una terra da sogno a contatto con popoli ancora non toccati dalle barriere dell’avanzata capitalistica, con corpi che in certe zone vivono a contatto completo con la natura.
Il positivo lo trovava soprattutto nella grande letteratura trecentesca: Boccaccio e il suo Decameron, Chaucer con i suoi Canterbury Tales, e l’anonimo autore delle delle Mille e una notte gli forniscono spunti per raccontare, materia su cui riarticolare un discorso personale inaugurando quella che sarà la Trilogia della vita.
Solo lì, in quelle zone lontane dalla produzione culturale, il corpo veniva infatti elevato e glorificato e la vita veniva per Pasolini rappresentata nella sua dimensione più appagante e favolosa.
Come negli anni 70 Pasolini,avrebbe rifiutato una realtà a lui estranea ed ostile, maledicendo l’orrore della Ragione al Potere, il moralismo trionfante e la cultura omologante.
Come si palesava nell’intera sua attività giornalistica, dagli scritti “corsari” apparsi sul “Corriere della Sera”e rubriche tenute sui periodici vicini alla sinistra.
Si sarebbe rifugiato nel suo teatro dove troviamo quella “stupefatta evasione nel dolente fantastico del ’sogno’, trenodia d’urto all’incerto evaporare della realtà e nelle opere della Trilogia.
E’in questii film ricavati dai tre testi letterari che ci mostrava “una vita che non distingue la morte dalla vita” .
E’ questo forse il messaggio più crudo che avrebbe lasciato a noi oggi ,il grande ‘intellettuale : una vita legata indissolubilmente alla morte; quello dei corpi sottoproletari morenti delle prime prove di regia di Pasolini, quelli sofferenti e i resi mutili (Edipo accecato) da un destino che si compie altrove e non può essere determinato dalla sola volontà umana.
L’uomo è impotente di fronte al destino, è questo il limite umano.
Forse l’uomo si è spinto troppo avanti , avrebbe gridato Pasolini, forse si è oltrepassato il limite invalicabile,.
Serve fermarsi ora avrebbe ammonito il poeta vate e ripartire dalla fragilità umana, dal limite umano, solo questo potrà salvarci.