Di Graziella Enna
A chi è avvezzo alle letture di memorie di reduci dei campi di sterminio, ma non solo, non sfugge certamente un elemento che accomuna tutti i protagonisti delle varie e tormentose vicende, ovvero il loro essere divenuti messaggeri di pace, incapaci di concepire odio e rancore, nonostante il male ricevuto: ciò costituisce il più significativo e profondo insegnamento, il testamento spirituale che ognuno di essi ha lasciato, (o consegnerà), all’intera umanità, a patto che ne sussista la memoria, alimentata e coltivata da parte nostra con devozione e rispetto. Non bastano più le date celebrative a tenere vivi i ricordi, sebbene siano deputate a tal fine, ma tanti fatti di cronaca devono fornirci un monito continuo che ci allontani dalla strada dell’intolleranza e delle discriminazioni e da ogni forma di nazionalismo dilagante. Questo messaggio, insieme con l’attività filantropica fatta di missioni diplomatiche e umanitarie, summa di tutta un’esistenza vissuta intensamente e irta dolorose occorrenze, si può associare, a buon diritto, all’ideologia e alla cultura del protagonista di questo scritto, Ariel Yahalomi. “Finalmente salvo” nasce come libro di memorie, senza velleità letterarie, a detta dell’autore non sarebbe mai stato scritto se non per una concatenazione di casi fortuiti.
La prima parte del libro è dominata per intero dalla sorte, in una concezione guicciardiniana che vede la totale supremazia del caso nelle vicende umane, mentre nella seconda parte domina una visione in cui la fortuna, come avrebbe sostenuto Machiavelli, è in parte fronteggiata dalla virtù dell’uomo, divenuto più accorto e previdente. E’ stato altresì del tutto casuale che questo testo sia stato introdotto in Italia ad opera del traduttore, il professor Augusto Fonseca che conobbe Yahalomi durante un viaggio estivo a Zawierce, in Polonia. Dagli incontri con l’autore, Fonseca apprese la recente pubblicazione delle sue memorie e ebbe da lui l’autorizzazione a pubblicare il libro in italiano nella collana Memento da lui curata.
Con questa sua traduzione ha reso omaggio non solo a un testimone esemplare della Shoah ma anche a un uomo che ha avuto il coraggio, la tenacia e la voglia di riscattarsi nella sua nuova patria, Israele, per la quale ha profuso fatica e impegno in gran parte della sua vita. Solo dopo molti decenni dalla liberazione Ariel Yahalomi ha avvertito l’insopprimibile e doverosa necessità di ripercorrere le sue vicende, quei cinque anni di giovinezza che gli furono ingiustamente sottratti dal Terzo Reich: inizialmente dentro di lui si era manifestata la volontà di rimuovere le drammatiche esperienze, che tuttavia rimasero sempre vive e incancellabili, anche se il rincorrersi precipitoso degli eventi successivi lo aveva privato del tempo indispensabile per riesumare e trascrivere ogni cosa. Ma il suo spirito guerriero inizia a ruggirgli dentro nel momento in cui, dopo tanti decenni, tornò in Polonia e si rese conto che quel giovane prigioniero e l’uomo adulto, temprato da mille vicissitudini, fossero la stessa persona e quella parte di lui occultata per lungo tempo dovesse essere palesata. Così iniziò un viaggio a ritroso nella memoria alla ricerca di luoghi, parenti, compagni di prigionia e tutto ciò che attenesse alla sua giovinezza. Più di ogni altra cosa però, l’elemento propulsore fu, come nella maggior parte dei reduci, il bisogno far conoscere al mondo la realtà dei campi di concentramento, di lavoro e di sterminio che spesso erano un tutt’uno, ma in una fase iniziale presentavano caratteri distintivi anche differenti, come ebbe modo di sperimentare il protagonista che ebbe la sventura di visitarne ben undici. Anche Yahalomi ha dunque voluto urlare al mondo la necessità di preservare la memoria, oggi più che mai necessario e non solo (per noi Italiani), il 27 gennaio, passato il quale molti forse tirano un sospiro di sollievo dopo il bombardamento mediatico di documentari su campi di sterminio, immagini divenute consuete e abusate: fili spinati, macerie, convogli ferroviari di carri merci o bestiame, corpi smunti coperti da logori stracci, volti emaciati e rifiniti, occhi incavati e bui, cataste di cadaveri senza nome, tutto proposto in vecchi e obsoleti fotogrammi color seppia. Passato questo giorno tutto svanisce e non lascia traccia in un ubi sunt dibiblica e leopardiana memoria, rimane l’empatia di chi ha onorato o almeno ricordato l’infame strage, l’indifferenza di chi finge di non vedere e capire, o peggio, la perversa incredulità dei negazionisti che adducono astruse motivazioni o si trincerano dietro abusati luoghi comuni su nefandezze e empietà dei diversi totalitarismi del Novecento, per rendere quasi marginale lo sterminio perpetrato nei lager. Le parole della senatrice Segre, in quel mirabile discorso al Parlamento Europeo, hanno posto anche l’accento sul fatto che, sebbene il 27 gennaio fossero stati aperti i cancelli di Auschwitz, per migliaia di prigionieri nei diversi campi d’Europa la liberazione era ancora lontana: con questo non intende certo sminuire la portata dell’evento, ma dimostrare che il ritorno alla categoria di esseri umani richiese mesi e mesi di attesa trascorsi da migliaia di detenuti in altri campi di prigionia e di transizione in condizioni estreme, o dopo la terrificante “marcia della morte”, per non parlare poi delle difficoltà del ritorno alla vita antecedente e del reinserimento nella società. E ne sa qualcosa Ariel Yahalomi, (traduzione in lingua ebraica del suo vero nome di battesimo Artur Dimant), ebreo di origine polacca trapiantato solo da adulto in Israele dopo aver, in giovane età, subito la deportazione. La sua fu un’infanzia serena e agiata, ebbe la possibilità di frequentare ottime scuole, gli venne impartita un’educazione improntata alla gentilezza, ai modi squisiti, all’amore per la cultura in senso lato. Più tardi, da adulto, si sarebbe domandato l’utilità di possedere una tale formazione, che aveva ben presto dovuto accantonare per apprendere l’arte di lottare ogni giorno per sopravvivere, in un mondo rovesciato e impossibile da immaginare come quello dei lager in cui l’unico pensiero per lui fu acquistare resistenza fisica e temprare il proprio spirito per non farsi sconfiggere dall’insensata e gratuita crudeltà degli aguzzini. “Il mondo senza perché” , definì Primo Levi la vita nel lager, dove l’insensatezza di proibizioni e divieti superava ogni umana comprensione. Adattarsi o soccombere erano gli imperativi categorici, sempre che nel mentre non sopraggiungessero infezioni, malattie, percosse, gelo, fame a spezzare il tenue filo di un’esistenza precaria. Artur Dimant sperimentò tutto questo, con una forza incrollabile, perché come afferma Primo Levi “anche nel meccanismo di distruzione del lager l’unica cosa che l’aguzzino non può togliere alla sua vittima è la memoria di se stesso”. Artur era nato a Zawiercie, in Polonia, nel 1923 da Leon Dimant e Sara Federman, trascorse un’infanzia felice in varie città in Polonia e anche all’estero, figlio unico di un violinista di grande fama, molto richiesto all’epoca in concerti e altre manifestazioni culturali che spesso erano organizzate nella loro casa e in cui si parlava non solo di musica ma di argomenti culturali con note personalità. Durante gli studi liceali, Artur aderì ad associazioni di scout in cui apprese i fondamenti del sionismo, di cui esistevano due correnti, una più idealistica basata su un’attività prettamente pionieristica nella terra promessa, l’altra invece incentrata sull’idea di una lotta armata. Nei primi anni del reich, Hitler iniziò l’espulsione degli ebrei polacchi dalla Germania e si rese obbligatorio l’insegnamento della lingua tedesca in Polonia: furono questi i prodromi dell’occupazione tedesca che concretamente si realizzo nel 1939. La famiglia Dimant viveva a Sosnowiec non lontano da Zawiercie in cui a breve avrebbe però fatto ritorno poiché le dimore di un certo livello furono requisite. Il primo episodio della nuova vita del protagonista nella Polonia occupata, fu un atto di coraggio in cui decise di presentarsi per essere mandato ai lavori obbligatori per ogni adulto, col nome di suo padre, che avvezzo solo al suo violino, non aveva mai svolto lavori manuali. Il denaro iniziò a scarseggiare, visto che furono chiuse le banche e dopo che furono sfrattati dalla loro casa fecero ritorno nella città natale, ma ben presto, nel 40, i Tedeschi intimarono alla comunità ebraica di assicurare forza lavoro: furono convocati tutti gli uomini giovani, scapoli o senza figli (quest’espediente voleva preservare i padri di famiglia), ma nessuno si presentò, perciò iniziarono le retate per strada e le irruzioni nelle dimore private. A questo punto iniziò per Artur la lunga serie di campi, come dicevo prima, inizialmente solo di lavoro con condizioni ancora non disumane: Auenrode, Dörfles, Flössingen, Anhalt in cui la manodopera era impiegata per la costruzione di strade, ponti, miniere. Artur si ferì ad una mano e rischiò di essere espulso e finire in cenere, ma per vari casi fu curato e poté rivedere la sua famiglia, ma nel mentre la comunità ebraica della cittadina fu costretta nel ghetto con le restrizioni sempre più limitative, tutto sotto la vigilanza e la supervisione dello Judenrat (Amministrazione ebraica del ghetto), e del corpo di polizia ebraica tipico dei ghetti di cui in futuro molti si sarebbero vergognati, ma anche questi erano compiti coatti e, come ci riferisce Artur, molti si sarebbero vergognati in seguito di avervi fatto parte, sicuramente una delle motivazioni che spinse molti a farlo fu di acquistarsi l’immunità dalla deportazione svolgendo compiti ingrati e a volte ignobili nei confronti della comunità di appartenenza. E’ indubbio il ruolo ambiguo di tante persone, ma del resto, è più che evidente, a mio avviso, la volontà da parte dell’invasore di realizzare il principio del divide et impera, con un gusto sadico di assistere alla scissione interna del popolo ebraico, tipico atteggiamento adottato dai tedeschi anche nei lager con i kapò e altre forme di collaborazionismo. Fu però una frase pronunciata da un capo dello Judenrat, un certo Meryn che diventò per Artur un’ancora di salvezza, un’inossidabile convinzione che lo incoraggiò e gli infuse ottimismo nella sua odissea personale:
“Verrà un giorno in cui le persone saranno felici di partire per i campi di lavoro coatto, per sopravvivere. Non so cosa potrà accadere agli altri, ma quelli che vanno a lavorare per il Terzo Reich, sono là necessari ed hanno la possibilità di restare in vita. Non vi opponete, in caso contrario arriverà il momento in cui vorrete addirittura pagare affinché vi accettino in un campo di lavoro”.
Nel mentre, Artur iniziò a lavorare in una fabbrica di munizioni grazie a una lettera che il direttore spedì al campo di transito (abbreviato con la sigla du/lag), in cui era stato dopo essersi ferito, dicendo che gli sarebbe servito come operaio nel settore metallurgico. Molti abitanti del ghetto di Zawiercie si illusero di essere necessari come manodopera ma purtroppo nel ‘43 il ghetto fu liquidato e Artur con sua madre finirono ad Auschwitz mentre suo padre fu trattenuto come manovalanza destinata a vari settori dell’industria bellica tedesca. Artur non seppe più nulla di più suo padre, mentre apprese che sua madre morì nel giro di poche settimane a causa del tifo contratto subito nel lager, in cui egli comprese la differenza tra i campi di lavoro sperimentati in precedenza e un luogo in cui si era condannati a morte. Ma anche lì non perse le speranze e il caso fece sì che il suo fascicolo di operaio specializzato inviato dalla fabbrica di Zawiercie ne permise in trasferimento a Jelcz in uno stabilimento approntato dalla Krupp. Il lavoro di costruzione dei cannoni era pesante e duramente sorvegliato, ma considerate le condizioni degli altri lager, era persino accettabile tanto più che il vitto garantiva discrete condizioni fisiche, sebbene nessuno fosse immune da percosse e maltrattamenti , come sperimentò lui stesso che dopo il lavoro per giorni venne massacrato di botte per un’accusa ingiusta da cui lo salvò il suo caposquadra trasferendolo in un altro block. Artur lavorò in quel campo fino al gennaio del 45, quando cominciò ad avvicinarsi l’Armata Rossa e i prigionieri furono costretti, dopo una manutenzione dei macchinari dell’enorme fabbrica, alla “ marcia della morte”: molti stremati si lasciavano andare privi di forze, molti si aiutavano a vicenda fino a giungere al campo successivo: Gross Rosen, ma il campo era già troppo affollato, perciò con vagoni scoperti dopo un’altra settimana terribile di fame e freddo, a Buchenwald, da lì in un sottocampo Dora-Mittelbau per lavorare in una galleria sotterranea nel cuore della montagna in cui si fabbricavano missili. In seguito a un atto di sabotaggio, che causò l’immediata impiccagione dei sabotatori, il sindaco della vicina città di Harzugen, temendo ripercussioni sui civili da parte dei prigionieri, ottenne che il campo fosse evacuato, perciò i prigionieri, dopo un altro campo, Dritte e altre peripezie tra cui una precipitosa fuga durante un bombardamento, con un’altra marcia furono condotti a Bergen Belsen, l’undicesimo campo per Artur. Altre tragedie e devastazioni in quest’ultimo campo prima della liberazione si presentarono agli occhi di Artur, ormai abituato a tutto. Un episodio particolare ci viene narrato: egli una mattina, per non dover ammucchiare miseri corpi privi di vita, stremato, si finse morto in attesa che tutto finisse e solo dopo molte ore tornò nel block a dormire. L’indomani mattina dopo l’appello sempre meno numeroso a causa dei continui decessi, un carro armato inglese divelse il cancello e entrò nel campo: era il 15 aprile 1945. Dopo la liberazione altri spostamenti attendevano Artur, in Olanda, Belgio Francia prima dell’imbarco verso Israele, che si dimostrò subito molto complesso e comportò documenti falsi, clandestinità, un viaggio in una vecchia corvetta, traversata con tempesta da manuale, scalo a Cipro fino allo sbarco a Haifa. Da questo momento tante altre e difficili vicissitudini attesero Artur che, come l’araba fenicie risorse dalle sue ceneri divenendo Ariel, ma il percorso fu lungo e richiese una tenacia esemplare, ma dopo undici lager tedeschi, cosa avrebbe potuto fermarlo? Visse l’esperienza del kibbuts, con giornate lavorative pesanti, un vitto scarso e niente denaro, proseguì facendo il lavapiatti, lavorando in una base militare inglese come operaio specializzato, fino all’adesione allo organizzazione di autodifesa della popolazione ebraica in Palestina, l’Haganàh. Nel 1948, quando le forze armate britanniche lasciarono la Palestina iniziò la guerra per l’indipendenza di Israele, Ariel prestò servizio militare per due anni per la difesa del fronte meridionale.
“In Europa ad annientarmi ci avevano pensato i Tedeschi, adesso in Palestina la situazione non era molto cambiata , l’unica differenza era nel fatto che qui avevo un’arma in mano .[…] Si sa non esiste una guerra piacevole, una guerra delicata. La guerra è una cosa crudele e malvagia. Per il resto dipende dal ruolo che ti tocca assumere, se quello di vittima braccata o quello di persona libera con un’arma legale in mano. Una cosa come questa può comprenderla solo chi l’ha vissuta.”
Il nuovo stato in via di formazione si presentava come un melting pot piuttosto eterogeneo, formato da persone di culture, luoghi e lingue differenti, le necessità erano tante: difendersi, gestire l’immigrazione continua, riportare alla vita reduci dai campi, malati e provati, privi di famiglia, per trasformarli in contadini, operai, soldati, cittadini liberi, costruire da zero ogni settore economico insomma. In tutto questo caos, però, regnava sovrana la voglia di riscatto e la volontà di chi voleva definitivamente lasciarsi alle spalle le persecuzioni subite. Dopo tante altre guerre e esperienze in campo militare e tecnico, finalmente Yahalomi, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, minato nella salute dalle conseguenze del lavoro nei campi tedeschi, iniziò la sua attività da civile nella MDA, la Stella Rossa di David, (l’equivalente della Croce Rossa), per l’organizzazione di missioni umanitarie in tanti paesi dell’Africa.
Ho conosciuto una cultura diversa e un diverso approccio alla vita. Ero convinto, a quel tempo,che era possibile fare qualcosa. Sono trascorsi 40 anni e quel mondo va sempre peggio, va sempre più a fondo. […] E’ stato un peccato enorme, perché i paesi dell’Africa erano molto aperti alla collaborazione, come anche diverse istituzioni nazionali. [..]
Fu proprio con l’MDA che nel 1973 Ariel tornò in Europa e visitò Bergen Belsen e fu l’inizio della ricostruzione delle tappe concentrazionarie della sua vita. La cifra di tutta la vicenda di Artur/Ariel si racchiude in questa riflessione finale:
“La forza spirituale permette di resistere e affrontare il freddo, le sofferenze, la fame, le umiliazioni e qualunque altra cosa faccia male. I sopravvissuti, in generale sono persone psichicamente molto forti, ben temprati nello spirito, grazie a cui hanno potuto resistere fino alla fine.”
Letteratura concentrazionaria
Delta Edit
2015
168 p., brossura