La fabbrica dell’obbedienza, di Ermanno Rea
Di Geraldine Meyer
“Il futuro è la porta, la storia è la chiave”. Mai come in questi giorni le parole di Massimiliano Santarossa, scrittore di Pordenone, appaiono urgenti e puntuali. Alla luce di esse, rileggere La fabbrica dell’obbedienza di Ermanno Rea appare come un modo per interpretare quanto va accadendo e per provare e delineare un domani, durissimo certo, ma con qualche arma in più: quella della cultura. Sia chiaro, non che la storia consenta la preveggenza ma, indubbiamente, essa ci consegna materiale essenziale e pregno di quei germi che poi sono diventati “malattie conclamate”
Dunque La fabbrica dell’obbedienza, e l’ancor più preciso sottotitolo Il lato oscuro e complice degli italiani, come sorta di vademecum per comprendere sfide e scommesse future. Rea, grandissimo scrittore morto nel 2016, compie un’opera immensa con questo libro. Pur non scevro da personali convinzioni politiche e sociali, Rea porta a sostegno di esse, libri e autori, storici e studiosi, non riducendo tutto a un punto di vista ombelicale.
E, così, partendo dalla Controriforma, volando su Machiavelli, planando su Mussoli per atterrare su Berlusconi, Rea ci dipinge il ritratto di un popolo, il nostro, imbrigliato, imbavagliato da una Chiesa che, se da una parte ha educato all’obbedienza, dall’altra non ha educato alle regole e al senso civico. Il disastro, il nucleo delle derive attuali, Rea lo identifica in quel punto, in quella sottomissione al potente di turno, tanto più cercato e riverito quanto più in gradi di assolverci da ogni peccato.
Una straordinaria cavalcata tra autori, filosofi, artisti, politici che ci conduce nel buco nero di quella mancanza di laicità che, spesso, si è tradotta in rifiuto della responsabilità e in complicità con il peggior malaffare. Ci sono pagine e parole, in questo La fabbrica dell’obbedienza, durissime, che pescando nella cultura (non dalle soggettive idiosincrasie dell’autore) dei secoli passati, risalgono via via al passato recentissimo per sdrabordare nell’oggi. Che cosa possa unire Caravaggio alla miope borghesia industriale e al malinteso senso di autonomia regionale nato negli anni ’70? Quali i legami tra Inquisizione e capitalismo dedito solo alla conta dei soldi e del guadagno immediato? Tra mafiosi devoti al cattolicesimo e Chiesa cattolica devota al controllo e al monopolio delle indulgenze? Uno straordinario ordito di citazioni, pagine, libri che La fabbrica dell’obbedienza mette insieme, conducendoci ad una presa d’atto amara eppure gravida di scommesse future.
Un libro in cui è possibile ravvisare l’eco di un altro meraviglioso libro di Rea, quel La dismissione che, nelle pagine di questo La fabbrica dell’obbedienza, risuona se non per temi e stile, sicuramente per ammonimenti politici, economici ma soprattutto logici, di pensiero lungo e respiro largo. Si dismette una fabbrica nello stesso identico modo in cui si dismette la voglia di essere cittadini per preferire il ruolo, più rassicurante, di sudditi, di questo o quel potere. Interessantissime e valide ancora oggi, soprattutto oggi, le pagine che in La fabbrica dell’obbedienza Rea dedica al meridione, alle ferite a esso inferte da chi ne ha fatto solo terreno di scambi politici e compravendite di furbizie e illusioni, come quella di una industrializzazione miracolosa che avrebbe dovuto, da sola e senza un vero progetto sistemico, risolvere ogni cosa, trasformando tutti in potenziali operai/schiavi.
Un libro bello e duro che, finita questa quarantena, tutti gli insegnanti dovrebbero far leggere ai loro studenti.
Saggistica
Feltrinelli
2011
219 p., brossura