La Storia della grande solitaria nella rubrica Luoghi d’Autore a cura di Ivano Mugnaini
Luoghi d’Autore contiene esplorazioni, esercizi di lettura e rilettura, brevi ma appassionate escursioni “informali” in abiti lievi e colori accesi su fondamentali sentieri panoramici. Indaga sul rapporto tra alcuni scrittori e poeti del Novecento e i loro luoghi di residenza ed elezione, le città e i borghi in cui hanno vissuto e lottato per il diritto di esistere e resistere, per la necessità, il fardello e il privilegio dell’espressione.
“Ci muovevamo sperduti, come attraverso un fragore prorompente, che ci urtava, ci avvicinava e ci separava, vietandoci d’incontrarci mai.”
Be così mi sento in qualche modo anch’io, nell’intraprendere questo nuovo viaggio. Timoroso ed incerto, quasi sperduto di fronte ad Elsa Morante, scrittrice di filastrocche e favole per bambini, poesie e racconti brevi. Dalla sua fantasia e dalla sua penna sono nati alcuni dei più celebri romanzi italiani del ‘900: “Menzogna e sortilegio”, “L’isola di Arturo”, “La Storia”, “Aracoeli”. Ebbene, nelle pagine dei suoi romanzi, nei contorni di isole, paesaggi e personaggi, nelle pieghe di esistenze in bilico sopraffatte dalla Storia, nel dipanarsi magico di storie immerse tra illusioni e realtà, scorgo molto di più di un’incredibile talento narrativo. Scorgo il profilo di una donna libera, dalla personalità complessa e misteriosa, sopra le righe e fuori dagli schemi, di quelle che lasciano il segno. Puoi amarle o odiarle, poco importa, non lasciano comunque indifferenti.
“La grande solitaria”, così la definì Franco
Fortini. E ancora oggi, nonostante le schiere di lettori, le innumerevoli
edizioni e riedizioni, i convegni e i dibattiti a lei dedicati, Elsa Morante
resta una figura isolata, avulsa dai flussi e dai riflussi, dai contesti
dominanti, dagli schemi prestabiliti. I suoi viaggi più significativi alla luce
di questa premessa e della sua vicenda esistenziale sono quelli che l’hanno
condotta alla piena consapevolezza della sua autentica natura di donna e
scrittrice attraverso aspri conflitti interiori e con gli ambienti in cui si
trovò a vivere ed operare.
Costretta a confrontarsi fin dall’adolescenza con luoghi e situazioni in cui il
degrado fa emergere il lato più oscuro e abietto degli esseri umani, la Morante
sperimentò in prima persona la vita ai margini dell’abisso e della
disperazione.
Tali esperienze la porteranno ad affermare anni dopo, quando era già una
scrittrice affermata, che “bisogna scrivere solo libri che cambiano il
mondo”. Cambiare il mondo per cambiare se stessa, perché ognuno, volente o
nolente, racchiude il mondo dentro di sé, il bene e il male, l’orrore e la
bellezza. Questa utopia necessaria, questa fatica di Sisifo, caratterizza
l’intero arco esistenziale della Morante.
Esplora sulla sua pelle le ferite che la rendono aspra, cruda, disillusa,
eppure scrive di un mondo salvato dai ragazzini e dà vita ad un’isola in cui il
giovane Arturo (il richiamo del nome alla parola Arte potrebbe non essere
casuale) trasfigura il mito grazie agli occhi ancora puri della fantasia e
dell’affetto.
Ma forse era già conscia fin dalla sua prima raccolta di racconti, Il gioco
segreto, pubblicato nel 1941 da Garzanti, che il gioco,
serissimo e lieve, consiste nella sopravvivenza dell’umanità, intesa, anche in
questo caso, sia come la globalità degli uomini e delle donne sia come la
natura autentica, tenace, insita in ogni singolo essere.
Nel 1936 Elsa Morante conobbe Alberto Moravia. Assieme a lui
frequenta tra gli altri Pier Paolo Pasolini, Umberto Saba, Attilio Bertolucci, Giorgio
Bassani, Sandro Penna, Enzo Siciliano. Ma, come spesso accade nella
sua vicenda esistenziale gli estremi coincidono e si sovrappongono: la fase
dell’incontro corrisponde a quella di una necessaria fuga. Durante
la seconda guerra mondiale, per sfuggire alle rappresaglie
dei nazisti, la Morante e Moravia si rifugiarono a Fondi, un paesino
in provincia di Latina.
Qui la Morante inizia la stesura di Menzogna e sortilegio. In questa
fase per la Morante il mondo è diviso in due, alcuni esseri “sovrumani” toccati
dalla bellezza e tutti gli altri, quelli che a suo modo di vedere non meritano
considerazione. Ineluttabile tuttavia è il destino dei “sovrumani”, soprattutto
quando si incontrano e si amano: lo sbocco è la follia. Il destino e la realtà
li separano, li allontanano dagli affetti più profondi. L’esito è quello
condiviso con la protagonista del romanzo, finire per scrivere lettere a se
stessa e alla madre, già morta. Il tentativo di elevarsi è compensato dalla
forza di gravità di un reale inesorabile.
L’isola di Arturo è del 1957. Vince il Premio Strega e ispira cinque anni dopo il film di Damiano Damiani. Il romanzo ha la struttura di una fiaba ma anche qui la realtà pervade e fa sentire la sua presenza e la sua voce. Il protagonista crea una mitologia privata in grado di rendere il padre un eroe. Il materiale letterario della scrittrice si nutre di se stesso, di letteratura, il romanzo si innerva in altri infiniti romanzi meravigliosi immaginati da Arturo, una metaesistenza basata su una vasta e fertile metaletteratura. Il romanzo assume anche un valore teologico, con il messaggio di maggior rilievo, nell’atto della sconfitta, la presa di coscienza dell’imperfezione del mito: perfino gli dei hanno bisogno degli uomini, dell’umanità che sa sognare e sbagliare.
L’isola in cui ha luogo il romanzo è Procida, scelta con oculatezza dalla scrittrice, un luogo noto ai grandi flussi turistici ma non al punto di essere oscurato dagli stereotipi, come accade alla metropoli che le è vicina, Napoli.
Contestualmente, come detto, nella quiete di Fondi, la Morante inizia progressivamente a concepire quello che può essere considerato il punto di arrivo, la meta di un’intera esistenza, a livello umano e letterario. Nel borgo in provincia di Latina, in quello che lei stessa definirà “una specie di porcile” messo a disposizione da un generoso contadino, lei e Moravia daranno vita a due delle loro opere più significative, La ciociara e La storia.
La Morante, nella pace minacciata dalla violenza e dalla paura e sublimata dall’amore per il suo uomo, è in grado finalmente di rovesciare il cannocchiale. Dal microcosmo passa al macrocosmo, abbandona l’isola ed abbraccia il mare aperto, con la sua globale fascinazione e crudeltà. I bombardamenti si intersecano alle fragilità, le malattie, l’epilessia, il dolore di ciascuna famiglia che rappresenta una tessera di un immenso addolorato mosaico.
Tornando a Fondi anni dopo Moravia si accorse che il
“porcile” che aveva ospitato lui e la Morante era ancora là, ed era ancora
vivo, lo credeva morto ed invece era ancora magnetica la sua presenza, nel
ricordo di chi lo aveva abitato. Era vivo anche per la consapevolezza
confermata nel tempo che l’amore non si prostra al tempo né al potere.
La storia è il romanzo della Morante. Tutto il resto del suo mondo
appare preparatorio, propedeutico. Ne La storia trovano compimento gli
anni e le esperienze, le poesie imperfette e i lavori di formazione, le isole
utopiche contraddette e dissolte dalle deflagrazioni della guerra e della
realtà. Ma nel suo romanzo più significativo il “realismo magico” trova il
compimento nella forza della sincerità: gli umili, i vinti, quelli che la
scrittrice ama e dalla cui parte si schiera, non prevalgono, non possono
sperare in nessun successo, rivalsa o provvidenza. I promessi sposi sono
lontani, fondamenta possenti ma ricoperte dalla macerie degli anni e degli
eventi trascorsi. I vinti vengono sballottati sugli scogli, e non c’è più
alcuna isola di miti generosi e assolati che possa accoglierli.
A Fondi, tra amore e paura, Elsa Morante trova la dimensione giusta, la
compenetrazione con il mondo contadino che accoglie e protegge lei e Moravia
senza pretendere niente in cambio. Senza pretendere di comprendere o di voler
modificare la loro profonda diversità e complessità. Solo così i
differenti versanti dell’animo della Morante, la sua natura popolana e quella
aristocratica , il suo istinto generoso e quello aspro e scostate, trovano una
conciliazione.
A Fondi inizia a guardare se stessa, e il mondo, per quello che è. A guardare e
a scrivere le cose come sono. Senza tentare di edulcorare la ferocia con la
fiaba né di contaminare la bellezza della resistenza con la retorica.
Per la specifica natura di donna e di scrittrice la Morante ha diviso e divide la critica. Alcuni non le attribuiscono grandi meriti e le rimproverano di non essere al passo con i tempi, di aver conservato una struttura narrativa ancora ottocentesca. Sul fronte opposto c’è chi la considera invece in grado di attraversare territori letterari diversificati, vivificandoli, dando loro un’impronta nuova. Ai due estremi contrapposti si collocano coloro che la considerano stucchevole e segnata da un populismo di maniera e chi al contrario apprezza la sua capacità di dare voce ad una passionale coralità.
Continuerà a dividere, la Morante, tracciando un solco netto
tra chi trova i suoi lavori appaganti e chi li giudica troppo lineari, come se
per anni avesse fatto a se stessa e alla propria scrittura uno sconto. Alla
fine del suo percorso, passando attraverso la miseria e il sublime, il
“porcile” di Fondi ed i salotti del mondo letterario e cinematografico, trova
nel romanzo La storia il suo luogo ideale, il compimento del suo
tragitto.
Dopo trionfi e delusioni, fughe, ritorni e nuove fughe, il motto della Morante,
la sua stella polare, “bisogna scrivere solo libri che cambiano il
mondo” trova compimento puntuale nell’atto del suo tradimento: La
storia è un libro che cambia il mondo nel momento esatto in cui smette di
volerlo cambiare e inizia a raccontarlo così com’è, tra sangue e sogno, fiaba,
massacro e rinascita.