Spostando l’acqua in un tuffo
Di Geraldine Meyer
Lastovo, piccola isola tra Spalato e Dubrovnik. Làgosta in italiano, Augusta Insula in latino, Làdeston in greco. È questo luogo in mezzo al mare a fare da filo conduttore di Spostando l’acqua in un tuffo, libro scritto da Ermanno Dodaro e Tullia Ranieri, da poco pubblicato dalla romana Fefè Editore. Ma filo conduttore per cosa, filo conduttore a cosa? A una memoria personale, familiare (quella dello stesso Dodaro) e storica.
Lastovo è, infatti, una delle isole che, oggi, sono Croazia e che, una volta, erano italiane. E dunque il filo conduttore di cui si fa protagonista è quello dell’esodo giuliano dalmata, l’esodo di donne e uomini costretti a lasciare il luogo natio, o quello in cui i casi della vita avevano condotto le loro esistenze.
Spesso, per comprendere le vicissitudini storiche, è utile dare loro un volto, un nome, una storia individuale e concreta che, con la sua personificazione, diventi qualcosa di fisico, che fa ombra e luce allo stesso tempo. Ed è proprio quello che accade in questo piccolo libro. Ma non si aspetti, il lettore, un romanzo o un diario “alla ricerca del tempo perduto” né, tanto meno, una cronaca diaristica di quei giorni.
Spostando l’acqua in un tuffo è, come scritto dagli stessi autori: “libro bizzarro, salta di palo in frasca, zompa, ride, piange. Si avvolge su se stesso, cerca parafrasi, si avvita in argomentazioni e argomenta motivazioni, inciampa e cade, sussurra e si contorce, dà l’addio definitivo e bussa alla porta del cuore dopo tre secondi.”
Quasi fosse delle istantanee, dei quadri narrativi, Spostando l’acqua in un tuffo, racconta, per frammenti e con ritmo quasi sincopato, la storia, i sacrifici, i sogni, gli amori di Nicola, Dina, Pina, Gilda, Anna, Tilde, Arturo. Uomini e donne i cui nomi sono un riflesso, un ricordo, un’immagine di un altro nome, quello di Lestovo appunto, luogo della memoria, ferita e imperitura erranza. Perdita e perenne mancanza, che sono di ogni esule. “Chi perde la propria terra perde la propria anima” leggiamo nel libro. E la semplice quanto drammatica affermazione è la verità che accompagna ciascuna delle persone raccontate qui, come è la verità di chiunque abbia conosciuto il loro destino.
Chi scrive queste pagine cerca di farsi testimone di un’erranza che continua anche dopo che si è trovato un altro approdo, comunque sia andato il viaggio, qualunque sia stato il modo con cui lo si è intrapreso. E allora ecco che, tra le pagine, ci arrivano anche delle foto in bianco e nero, volti, occhi, che si buttano sull’obiettivo, presaghi e dimentichi nello stesso tempo, di cosa sarà e del dolore per un esilio che, sempre, resta un crimine. E proprio una di quelle foto riporta un’immagine dell’esodo, uomini, donne e bambini, su un carro, con poche cose portate con sé. E, leggiamo: “Quegli strappi d’umanità stanno lasciando le loro case, le amicizie di un tempo gli si sono rivoltate contro, togliendo loro persono il saluto e regalando in molti casi violenza e rancore. In quei luoghi non c’è più futuro, bisogna rimboccarsi le maniche, caricare tutto ciò che si può e sparire verso l’orizzonte. Nei porti le navi li aspettano per sottrarli ad un sogno nutrito a volte per decenni, quando non per secoli: il sogno o forse la chimera di essere italiani fuori dall’Italia, di rendere proprie quelle terre che avevano coltivato e amato.”
In quei luoghi non c’è più futuro. Forse questo libro è, oltre che il recupero di storie e ricordi, è proprio quello di dare un futuro almeno a quelle storie. Raccontandole.
Esilio giuliano dalmata
Fefè Editore
2020
166 p., brossura