DINO CAMPANA E L’ANGOSCIA ESISTENZIALE
Di Adriana Sabato
“Tu sei pazzo, mica Van Gogh.
Spacchi tutto quando fan goal
fai la coda per lo smartphone,
tu sei pazzo, mica Van Gogh”.
Caparezza
Cosa pensa un artista quando crea? Cosa pensa un poeta quando scrive?
È difficile anche soltanto riuscire a interpretare il proprio frutto, nello stesso istante in cui intende comunicare qualcosa, fosse anche soltanto a se stesso.
E il poeta, cerca forse il suo io, quando scrive e“viaggia”, trascinando con sé l’ignaro lettore?
Ci si può accostare così alla nebulosità onirica di Dino Campana, quasi curiosando nella sua mente, cercando di scoprire le sue verità nascoste, nell’intento di regalare emozioni profonde peraltro evocate dal suo linguaggio moderno.
Un linguaggio non monotono e affatto noioso il suo, che ci catapulta direttamente nel ‘viaggio’.
Il viaggio di un poeta alla ricerca di se stesso? Forse.
Certo è che si evidenzia l’angoscia esistenziale di Dino Campana in maniera analitica, rispetto ai Canti orfici, ripercorrendone il percorso attraverso il dubbio instillato nella mente di ognuno.
Le domande sono interrogativi universali ai quali ognuno sa (o non sa) offrire risposta. “Tu sei pazzo, mica Van Gogh“, scrive il cantautore Michele Salvemini, in arte Caparezza, in un testo assai significativo, e questa è già una risposta al più grosso dilemma in merito alla statura artistica di Dino Campana. Un risultato ermeneutico comune a tutti coloro i quali, nel tentativo malriuscito di comprendere la portata delle opere di grandi artisti, si giustificano adottando lo stratagemma di attribuirle alla pazzia o all’assunzione di sostanze.
Invece no.
“La risposta di Salvemini è chiara, anzi, ancora più sconvolgente: dopo aver mostrato la follia suicida delle attività quotidiane che noi tutti, uomini medi, svolgiamo nelle nostre medie vite, accompagnato dallo scoppiettante e come mai ‘hard rock riff’ della chitarra elettrica, lancia la sua provocazione, senza punti interrogativi.
Sei tu, tu uomo medio, siamo noi comuni mortali ad essere pazzi, rinchiusi nei manicomi della nostra bassezza, della nostra presunzione, della nostra ignoranza, della nostra freddezza, della nostra stanzialità, della nostra apatia, dei nostri cliché estetici, ad essere pazzi, mica Van Gogh.
E sono tanti gli interrogativi ai quali probabilmente ognuno può offrire risposta attraverso la lirica espressa nei Canti Orfici, pura poesia, pura musica, uno ‘spartito’ dalle innumerevoli variazioni, pennellate di colore, infinite.
“Forse, è stato scritto di lui, si può parlare dei Canti Orfici come di un lavoro sottilmente profetico, che spesso tende a evidenziare le situazioni del suo tempo, come lui le vedeva”.
No, Dino Campana, rinchiuso in manicomio fino alla morte, non è pazzo.
Sfuggire alla propria natura è l’impresa che Campana tenterà di realizzare per tutta la vita. Senza mai riuscirci. Qual è dunque la realtà campaniana? Visione o visitazione?
Barche amorrate
Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza…
Ne l’ultimo schianto crudele…
Le vele le vele le vele
Dino Campana