Elionautica
Di Giacomo Colomba
Tutto e’ rabbuito ed eroso.
Da tempo hai desertato i sogni
e le stelle dai quali aizzavi
il fondale del mio cuore.
Ma l’assenza non prosciuga
il rivo del mio fuoco,
divampa una gioia viva.
Non riesco piu’ a vederti
sotto la cute dei miei compagni
ne’ dietro l’abito dei miei nemici,
la stoffa e’ solo stoffa,
un punto croce di noia.
Eppure il gaudio e’ impeturbato,
eretto, a prova di dissolvenza.
Tornai alla cascata
dove lasciavi che rimirassi
la tua crine aprire i prodigi
per poi farli cadere, ma non ho
visto niente per settimane,
solo i calabroni si divoravano
l’un l’altro in una giostra
di cardi, e nulla piu’.
Neanche questo ha spezzato
il riso pulsante di un dio sazio
che non riesco ad espellere dal mondo.
La luce che squilla nelle gemme
non ti riflette piu’ e non
c’e’ traccia di te tra le pagine
dove una volta ci incontravamo.
Ti ho cercato tra l’inchiostro ma
ho finito col riempirmi lo sterno
di cantilene e ragnatele.
L’oro battriano e’ cialtroneria
eppure sento il canto di una pienezza
alata e insopprimibile, che neache
nel vuoto cesserebbe di ridere.
Il vento non mi parla piu’ di te,
la pioggia non ha piu’ il tuo odore,
Esfahan e Singapore sono
un incubo di fumo vuoto,
due torbiere di miele morto
senza il tocco dei tuoi passi.
Eppure non una lacrima,
un diniego o una resa
rannuvola il sole leonino
di un’estasi all’opera.
Nelle carezze di polvere
delle amanti non ti sento
piu’, ti ho perso da tanto,
nessun nome ti contempla,
non ti capto da decenni
nei palpiti e la tua voce
e’ sparita anche dai ricordi.
Ho dissepolto ogni tempesta
ma non c’e’ niente dei tuoi fulmini
che possa abbracciare tra i combusti.
Tutto e’ dipartito e i giorni
sono morte amnesie,
arazzi immobili, smossi
a malapena da un’aria viziata,
da una vetusta penombra.
Anche le preghiere e la sete
sono ridotte male, al lumicino,
come corpi presi dalla peste
e lasciati deperire su un
banco di legno, con le ossa
del bacino a sporgere, in un
gelo di poche speranze.
Eppure non riesco a piangere.
Ho perso il Greenwich e l’equatore
ma tutto freme di una delizia unica,
un fervore che penetra la brezza,
un vigore che sale nelle linfe,
che mantiene salde le rocce.
La beatitudine invitta
mette radici all’inferno.
Ho tenuto tra le mani teschi rotti e
polsi aperti come fogne spergiurate,
corpi ridotti a un flebile spirare,
e non ho tremato ne’ sono sciapito
nella compassione delle suore.
Solo la gloria di una primavera
mai vista, quella dei poeti
ultravioletti, tale radianza,
e’ qui per sempre, anche se ti avessi
perso definitivamente, anche
se per le strade vagassero
ossa e carcasse come per oggi,
e i giorni un mercimonio di lacrime;
anche se regredissi alla bestia
tornando tra i rovi a cibarmi
di sangue rappreso, la radianza e’ mia,
questa neve, questa compiutezza,
anche se la guerra e’ persa
e io ne fossi l’ultima lacrima,
ed in virtu’ di un tale inferno
il mio balzo nel buio non trovasse mai
fondo, neppure nel fondale degli eoni,
neanche allora riuscirei a piangere.
In questo smacco prodigioso,
sulla sella di questo serpente
di polvere cosmica, io fremo
di una Gloria senza nome e
prendo nota dell’Eternita’.
L’immagine di copertina è Il sole rosso, di Joan Mirò