Il genocidio armeno
Di Graziella Enna
Il martirio di un popolo. I massacri dell’Armenia, di Hanry Barby, traduzione di Arnaldo Cerani. Editore Mediolanum, 1934
E’ raro e introvabile questo libro che ho ricevuto in regalo. Seppur usurato dagli anni e privo ormai dell’originale copertina, il sorprendente contenuto delle pagine ingiallite e sbiadite offre al lettore un eccezionale resoconto. In Italia il libro è stato stampato nel 1934, ma dalla lettura si evince facilmente che l’autore scriva “a caldo”, infatti il libro fu pubblicato a Parigi nel 1917 e costituisce una delle prime testimonianze sul genocidio armeno. Le vicende in esso ricostruite erano appena avvenute, perciò hanno il sapore di una cronaca quasi in diretta. Corrispondente di guerra per il Journal, Barby compie principalmente il suo dovere di informare, ma ha anche raccolto testimonianze e materiali con la volontà manifesta di denunciare le violenze di stato e i responsabili dei crimini.
Ampiamente trattata in varie opere di storici, la tragedia armena rimane inspiegabilmente marginale nella storia del Novecento, pertanto la lettura di questo testo può essere considerata una fonte documentaria di grandissimo valore perché riferisce notizie provenienti da testimoni oculari diretti, (tra cui lo stesso autore), e dai racconti di vittime scampate miracolosamente ai massacri. La ricostruzione si avvale anche di documenti ufficiali come relazioni e rapporti di ambasciatori e diplomatici. La disamina è estremamente chiara e accurata e affronta la questione armena fin dal principio. Ne tratteggerò una sinossi mettendo in luce gli aspetti salienti. Tralasciando tutte le persecuzioni che gli Armeni furono costretti a subire nel corso dei secoli da parte dei Turchi, si giunge a fine Ottocento quando essi rappresentano, nelle contrade lontane della Turchia, l’unico nucleo della civiltà occidentale. Nel 1878 durante la guerra russo-turca, gli Armeni sperano di diventare uno stato-cuscinetto autonomo, dal momento che i Russi erano penetrati fino alla città di Erzerum.
Ma il sogno si dimostra vano perché l’imperatore russo restituisce ai Turchi, al Congresso di Berlino, le sue conquiste armene. D’altra parte però il patriarca armeno aveva chiesto delle garanzie per le popolazioni cristiane dell’Asia minore ma le grandi potenze europee non si curano di metterle in atto per proteggere i nuclei di popolazioni armene dalle persecuzioni. Intanto l’idea del panislamismo si diffonde con Abdul Hamid, con lo scopo di rendere omogeneo l’impero ottomano, ormai vacillante, eliminando l’ultimo popolo cristiano d’Asia che prima o poi avrebbe provocato un ulteriore intervento dell’Europa. Non resta così che eliminarlo brutalmente. D’altra parte però, gli Armeni avevano acquistato una loro identità e una coscienza nazionale grazie anche allo sviluppo in campo culturale e letterario, per cui nascono movimenti di emancipazione e difesa non certo per infierire contro i Turchi ma per preservarsi dalle loro persecuzioni o dalle incursioni kurde. Le carneficine perpetrate causano lo sdegno dell’Europa, che a malapena, riesce a arginarle minacciando Hamid. La dimostrazione armata degli Armeni che assaltano la Banca Ottomana ne causa una recrudescenza: si stima che siano cadute trecentomila persone in questa prima fase, devastati migliaia di villaggi e distrutte centinaia di chiese, alcune delle quali trasformate in moschee.
Con l’avvento dei cosiddetti Giovani Turchi, tramite delle relazioni diplomatiche si spera in una riconciliazione all’insegna della giustizia e dell’uguaglianza, parole simbolo del movimento. Confronto alle persecuzioni di Hamid si vive un clima relativamente sereno: le incursioni Kurde continuano ma almeno sono terminati gli eccidi di massa. La politica internazionale mostra però nuove alleanze: la Germania, alleata segreta della Turchia, si unisce anche alla Russia che a sua volta si pone a capo di un movimento armeno. Allo scoppio della guerra, nel 1915, la Germania alimenta il sogno di affermare il suo dominio in Turchia, perciò ha un forte interesse di far scomparire l’Armenia perché avrebbe ostacolato la via tedesca dei commerci con l’Oriente. Nelle mire espansionistiche della Germania le ricche terre armene sarebbero divenute “le Indie germaniche”. Il piano di sterminio fu così progettato: “metodo tedesco unito a lavoro turco”.
Questo è il presupposto da cui parte tutto lo sterminio. Barby prosegue la ricostruzione con l’inizio dei massacri di Erzorum in particolar modo tramite la testimonianza del console degli Stati Uniti nella città, il reverendo Stapleton, che era anche missionario. Egli riferisce all’autore i fatti, di cui fu testimone oculare, fornendo dati precisi corredati di luoghi e date:
“Il 19 maggio 1915 i Kurdi a Khnis-Kalè massacrarono gli Armeni. Il primo giugno tutto il vilayet (distretto) di Erzerum riceve l’ordine di esilio. Quest’ordine, poi, giunge per gli stessi abitanti di Erzerum”
Il primo gruppo di emigranti lasciò la città il 16 giugno, ma la grande massa degli esiliati con un immenso convoglio di carri, scortata da gendarmi turchi partì il 19 giugno. A settembre il reverendo scoprì il destino della carovana: dopo la confisca dei mezzi di trasporto, gli Armeni furono vittima di atrocità indescrivibili, egli riferisce con precisione date, nomi, inclusi quelli dei mandanti: Kemal pascià, il capo della polizia, il deputato alla camera ottomana Seiffoullah, e l’ufficaile turco Ingliz Ahmed Bey che arrivò a minacciare di morte persino l’ambasciatore stesso. Gli ufficiali tedeschi si limitarono ad assistere ai massacri e a rapire alcune donne armene, dopo aver trascorso il loro tempo in gozzoviglie e costretto le sventurate a subire i loro infimi desideri. L’ambasciatore Stapleton riuscì a salvare solo una piccola di quattro anni miracolosamente scampata ai massacri. Spesso la tomba di migliaia di persone durante le prime deportazioni fu il fiume Eufrate in cui venivano gettate dopo essere state sgozzate. Un altro testimone, (scampato e rimasto per giorni nascosto in una grotta), riferisce che alle carovane venivano chieste ingenti somme di denaro in cambio di protezione salvo poi essere trucidate dopo alcune ore in orrende e disumane carneficine tramite assalti di centinaia di Kurdi preparati preventivamente a perpetrare la strage. Solo qualche giovinetta e qualche donna, ritenute belle, erano risparmiate ma destinate a una vita miserevole. Gli abitanti rimasti ancora nel distretto di Erzerum, vennero a sapere tali accadimenti e si rifiutarono di partire, ma il valì, (governatore), diffuse la notizia che era tutto falso e si impegnò a dare scorte alle nuove carovane. Ovviamente furono sterminate durante il cammino. Dopo quest’infame carneficina il distretto fu occupato dai Turchi che si impadronirono di case, terreni e beni materiali di ogni sorta.
Barby ci riferisce poi dei fatti legati alla città di Trebisonda, splendido anfiteatro naturale affacciato sul Mar Nero, in cui gli Armeni vivevano agiatamente e in sicurezza, grazie alla presenza di consoli stranieri. I loro affari erano floridi, svolgevano egregiamente qualunque mansione, erano affabili e premurosi qualsiasi ruolo rivestissero. La città si presentava come un melting pot di popolazioni asiatiche e europee: Turchi, Greci, Armeni, Persiani, Europei di vari stati. Il 28 giugno del 1915 la popolazione armena di Trebisonda ricevette l’ordine di abbandonare la città, ma nel frattempo i notabili e gli intellettuali, circa seicento uomini, vennero imbarcati su dei battelli che dopo qualche ora fecero ritorno in porto, vuoti: tutti erano stati uccisi e gettati in mare. Le colonne di deportati, appena fuori città vennero assalite, gli uomini massacrati subito, i fanciulli dilaniati e straziati, le donne e le giovinette sgozzate e sventrate. Il metropolita della città e il console degli Stati Uniti riuscirono a salvare dalla deportazione cinquecento fanciulli, ma il valì li strappò a loro per porli in un presunto orfanotrofio dove li fece morire di stenti. Nessun armeno di Trebisonda sopravvisse e tutte le loro dimore furono saccheggiate.
L’autore a questo punto fa una riflessione per ribadire la responsabilità del governo turco nell’esecuzione di quelle orribili stragi, ma sostiene la necessità di proclamare e far sapere al mondo che la Germania non fece mai un passo indietro né intervenne a difesa degli Armeni, anzi aiutò i carnefici con i suoi consigli. Perciò Enver pascià continuò a portare avanti la sua decisione di non voler più un cristiano in Turchia. Nel mentre a Costantinopoli e in tutta la Turchia tutta l’intellighenzia armena fu arrestata, imprigionata, uccisa e deportata. Era necessario che coloro che occupavano ruoli importanti, deputati, politici, professori, medici, artisti, letterati, venissero messi a tacere per primi. La maggior parte di essi aveva una cultura intellettuale europea oppure aveva frequentato collegi francesi, americani e tedeschi in Turchia. Gli Armeni non erano certo dei popoli barbari o bellicosi, ma conducevano una vita serena, agiata e perfettamente integrata con le popolazioni musulmane nelle varie località turche.
Barby durante la narrazione tiene a sottolineare la veridicità di ogni pagina, sostiene di possedere tutte le prove, non ultime le deposizioni di rare vittime sfuggite alla morte, oltre a quelle dei Russi di Francesi o dei religiosi che furono testimoni dei fatti, così come le infermiere e i medici delle missioni tedesche. Commoventi e strazianti risultano al lettore i racconti di chi vide le carovane della morte o quelli delle infermiere impossibilitate a prestare soccorso. Il console americano di Kharpout stese un rapporto ufficiale datato 11 luglio 1915 in cui descrive l’arrivo in quella località (situata in un luogo aridissimo), di ciò che restava dei primi convogli da Erzerum e altre località:
“cenciosi, sporchi, affamati, malati. Da due mesi erano in cammino, quasi senza cibo e senza acqua. Fu dato loro del fieno come se fossero bestie. Erano così affamati che vi si gettarono sopra ma gli zaptiehs ( gendarmi sorveglianti), li respinsero a colpi di bastone e ne ammazzarono molti […] Dai racconti risultava che la maggior parte di essi erano stati trucidati durante il cammino, dagli attacchi dei Kurdi, molti erano morti di stenti e di fame.”
Il console riferisce nel rapporto storie personali di qualche fuggiasco, inenarrabili e mostruose che offrono al lettore appena un saggio del sadismo e dell’efferatezza subita dalle carovane. Non bastava più ai Turchi e ai Kurdi uccidere nei modi più tremendi e svariati, si inventarono allora crudeltà infernali per tormentare gli Armeni derelitti e prostrati dal cammino fatale verso luoghi desertici e inospitali. Le piste percorse dalle carovane offrirono per lungo tempo un raccapricciante spettacolo ai viaggiatori: migliaia di teschi biancheggiavano al sole, l’acqua dei fiumi e dei pozzi rimase corrotta dai cadaveri abbandonati in putrefazione. In tutti i vilayets turchi regnava morte e distruzione. Moltissimi musulmani trovarono inqualificabili e privi di fondamento i delitti perpetrati dal governo, molti ne rimasero inorriditi. In certe regioni, numerose famiglie armene sfuggirono allo sterminio grazie ad alcune tribù kurde, già di per sé poverissime, che dimostrarono loro sentimenti di umanità. Tuttavia, da una lettera che uno dei kurdi aveva recato a un comandante russo, emerse che gli Armeni nascosti vivevano in condizioni estreme, soffrendo fame e stenti in rifugi in luoghi montuosi. Nella missiva erano indicati anche il numero complessivo dei salvati con il nome dei villaggi di cui erano originari e inoltrate richieste imploranti di aiuto.
Un altro argomento che Barby tratta è la resistenza armena, in considerazione del fatto che, spesso si crede che non ne sia mai stata organizzata alcuna. In realtà la questione si rivela molto complessa dal momento che le popolazioni armene da secoli subivano massacri e vessazioni di ogni tipo. Perciò vivevano in una situazione di allarme continuo. Il problema della resistenza nel periodo clou del genocidio è legato al fatto che la popolazione armena, sedentaria e laboriosa, era sparsa su immensi territori privi di vie di comunicazione, era mischiati con i Turchi e con i Kurdi, che al contrario erano nomadi e predoni. Proprio nei luoghi decentrati, in particolar modo in Cilicia, in cui le deportazioni furono meno selvagge, fu organizzata la più famosa ed eroica resistenza sul Monte di Mosè, che ebbe un felice epilogo per quattromila Armeni salvati dalle navi francesi nel versante marino del massiccio a picco sul mare. Il racconto di questa resistenza ci è giunto grazie al pastore Dikran Andreassian. Altro episodio della resistenza avvenne a Van, città definita con un vecchio proverbio armeno “Van in questo mondo e il paradiso nell’altro”. Circondata da alte montagne e prossima al grande lago, Van fin dai tempi remoti fu la città più rinomata, il più florido centro intellettuale, artistico e commerciale. La rivolta di Van, ricostruita in modo precisissimo dall’autore, culminò con un assedio turco. Gli Armeni si difesero scavando trincee, elevando barricate e difese di ogni tipo sotto il fuoco dei cannoni e delle artiglierie turche. La lotta fu accanita, gli approvvigionamenti di vettovaglie cominciarono a scarseggiare, ma improvvisamente il corpo dei volontari armeni, avanguardia delle truppe russe provocò la fuga dei Turchi. La resistenza di Van fu vittoriosa anche se la città fu devastata. Qui l’autore apre una parentesi per parlare dei volontari armeni negli eserciti dell’Intesa e più in particolare nell’esercito russo. I Turchi in previsione della guerra russo-turca avrebbero voluto che i giovani armeni si arruolassero nell’esercito turco, ma essi si opposero e furono perseguitati. Quando poi scoppiò il conflitto russo-turco gli Armeni di Russia e di altre parti d’Europa si arruolarono nelle file dei Russi, degli Inglesi e dei Francesi per poter organizzare dall’esterno movimenti patriottici e dare il loro contributo alla liberazione armena. L’ingresso trionfale dopo la fuga dei Turchi nella città di Van il 16 maggio 1915 ne è appunto un fulgido esempio.
Altro importante tema trattato è il destino dei fanciulli. I pochi bambini sfuggiti ai massacri vennero internati dai Turchi nelle loro famiglie, costretti a dimenticare la loro origine e a divenire musulmani. Altri vennero rapiti dai Kurdi e portati nelle montagne selvagge. Talvolta riuscivano a fuggire dai loro rapitori e tentavano di tornare nei loro villaggi ma si smarrivano per via, sfiniti dalla stanchezza e dalla fame e, se pure vi ritornavano, trovavano solo macerie e rovine. Molti sopravvissero nutrendosi di detriti, di erbacce e di insetti, i più fortunati furono raccolti ormai scheletriti dalle truppe russe e dai volontari armeni. Terribili i racconti di quelli che ancora erano in grado di parlare, struggente l’incontro, che rasenta l’incredibile, tra un bimbo di otto anni e suo zio arruolato tra i volontari. L’autore, tempo dopo, riuscì a raccogliere le testimonianze di molti bambini che furono accolti dopo i massacri dall’Ufficio nazionale armeno in alcune strutture, a loro destinate, nella città di Tiflis (Tblisi). La maggior parte di essi, annichiliti dallo spavento non erano in grado neppure di parlare, solo alcuni riuscirono a riferire le loro storie e il modo in cui videro i loro familiari e i loro conoscenti massacrati nei modi più barbari.
Quale fosse il fine ultimo delle miserevoli carovane, che sopportarono centinaia di chilometri di marce sotto il sole cocente e decimate dai continui assalti, è descritto negli ultimi capitoli del libro. I deportati venivano letteralmente confinati, senza possibilità di fuga, in territori desertici e torridi in Mesopotamia, nei deserti della Siria, tutti luoghi estremi e infernali. Secondo le parole di qualche viaggiatore che per caso si accostava a quelle terrificanti distese desolate, nessuno avrebbe potuto descriverne l’orrore. Non esistevano ripari per il freddo terribile dell’inverno, tantomeno per sopportare l’implacabile ardore estivo, non possedevano che brandelli di cenciosi abiti. Quelli che si trovavano presso le ardenti rive dell’Eufrate pativano la sete, perché gli zaptihes impedivano loro di bere. La fame era indicibile, il deperimento dei loro corpi spaventoso. Un medico dell’esercito turco, il dottor Toroyan, di evidente nascita armena, (come indica il suo cognome), fu incaricato di controllare le condizioni dei campi dei deportati. Vide scene così mostruose che decise di fuggire, rischiando la propria vita, pur di far conoscere al mondo le atrocità, le barbarie e l’infamia dei persecutori. Barby ebbe una conoscenza diretta del dottor Toroyan che gli riferì il contenuto delle sue annotazioni riguardanti lo stato di prostrazione di quelle persone derelitte e moribonde che, vedendolo, imploravano aiuto, cibo, subendo immediatamente la violenza dei sorveglianti. Un altro documento inconfutabile giunto nelle mani di Barby fu quello redatto dal “Comitato americano di soccorso agli Armeni e ai Siriaci”, inviato nell’autunno del 1916. Il relatore descrive luoghi, che neppure si possono definire campi, in cui i deportati quasi nudi e senza nutrimento erano circondati in piena aria senza ripari, solo alcuni riuscirono con le poche forze rimaste loro, a scavare dei piccoli avvallamenti sul terreno per ripararsi.
“Sono tutti affamati, con visi scarni, pallidi truci, con i corpi ossuti, hanno l’apparenza di scheletri, che le più spaventose malattie divorano. Sembra che la volontà del governo sia di farli perire per fame”.
Il relatore riferisce anche che questi esseri umani erano per lo più erano donne, vecchi e fanciulli dal momento che gli uomini e i ragazzi furono uccisi o condannati a spaccare pietre dispersi sulle strade dell’impero. Le giovinette divennero preda dei musulmani, violentate, seviziate, fatte schiave o uccise. Passa poi in rassegna altri luoghi, situati sempre nei luoghi più aspri e desertici dove in analoghe condizioni vivevano altre migliaia di Armeni.
Negli ultimi capitoli Barby prova a fare una stima e un bilancio del genocidio e continua a chiedersi come fosse potuto accadere un tale eccidio di massa sotto gli occhi di tutti. Un solo uomo in Germania provò a protestare contro quegli orrori: il dottor Lepsins che, in seguito alle rivelazioni di alcuni religiosi tedeschi, rivelò la sistematica distruzione di una popolazione indifesa, laboriosa e pacifica. Il governo tedesco si limitò a dichiararsi innocente e si sforzò di far credere che si trattasse di iperboliche esagerazioni e non si occupò più della questione.
Prima di chiudere il suo scritto, accludendo una serie di documenti e rapporti ufficiali, Barby fa delle importanti riflessioni. Egli, inviato sul posto dal Journal, ha potuto constatare la verità e afferma di essere rimasto molto al di sotto della realtà per l’impossibilità di poter descrivere una così terrificante situazione. Ravvisa come causa scatenante di tutto l’odio turco il fatto che l’Armenia in oriente rappresentasse la civiltà occidentale. Passa perciò in rassegna la società e l’economia armena, mettendo in evidenza l’indefessa operosità e l’altissimo livello culturale raggiunto, senza contare l’integrità morale e gli alti ideali che vi furono sempre difesi e coltivati. Lungi dal volerlo considerare un popolo perfetto, non innalza nessun panegirico, ma fa sue le parole del poeta armeno Archag Tchobonian:
“non esiste un popolo perfetto: quelli che si trovano privati della propria indipendenza e che subiscono il giogo di un dispotismo avvilente, forzatamente hanno maggiori difetti dei popoli liberi”.
Riporta poi i pareri unanimi di autorevoli voci di personaggi illustri di tutto il mondo che esprimono la loro stima e il loro apprezzamento per il popolo armeno e sostengono che l’Europa avesse dovuto impedirne con ogni mezzo la distruzione, in primis per ragioni umanitarie ma soprattutto perché il mondo intero sarebbe rimasto impoverito senza un popolo tanto avanzato dal punto di vista morale e culturale che nel corso dei secoli aveva dato costante prova del suo valore.
Henry Barby ci restituisce una verità ancora oggi negata in un documento di grande valore, le cui osservazioni sono preziose dal momento che sicuramente non era facile in quegli anni per un giornalista occidentale essere presente in un tale drammatico frangente. Il suo libro, viene pubblicato nel 1917, pertanto egli necessariamente ignora che ciò che descrive costituisce solo la prima fase del genocidio, visto che la seconda fu successiva e ovviamente egli non poteva sapere cosa sarebbe successo. Altro problema che potrebbe sorgere nel lettore è se lo scrittore esprima dei giudizi di parte (determinati dai giochi di alleanze politiche del periodo), che sarebbero potuti apparire diffamatori nei confronti del popolo tedesco. Tutte queste problematiche sono state trattate dalla storiografia posteriore e oggi possediamo sufficiente materiale per poter conoscere la verità oggettiva. Resta il fatto che, considerate le difficoltà del momento in cui si svolge il reportage, non possiamo che apprezzare un’opera, che pur nei suoi limiti, appare scrupolosa e completa e onora la memoria degli Armeni tragicamente scomparsi.