Il linciaggio degli italiani in America: una storia sommersa
Di Valentina Di Cesare
La vita è solo un gioco. Finché vinci
Patricie Holečková
Il suo cognome è Santell ma nella mia mappa parentale più nota non ve n’è traccia. Strano, eppure il test del DNA che il mio compagno mi ha regalato per Natale dice che il nostro grado di parentela è abbastanza stretto. Lui vive in Pennsylvania, ha 60 anni, una bella moglie di origini polacche e due figli poco più che ventenni. Ci mettiamo in contatto: a migliaia di chilometri di distanza, senza conoscere l’uno il viso dell’altro ci domandiamo come stiamo trascorrendo le nostre reciproche quarantene. Poi veniamo al dunque: lui è mio zio, io sua nipote. Zio e nipote alla lontana, ma non così tanto da scomparire dalle rispettive mappe cromosomiche. Ma allora perché questo cognome? Quando suo bisnonno Pasquale, cugino del mio, arrivò negli Stati Uniti era la fine dell’Ottocento (più o meno nel periodo della cosiddetta pipeline immigration, ovvero a rubinetto aperto) non sappiamo se giunse da solo o con sua moglie, ma sappiamo con certezza che lei proveniva dal suo stesso paese in Abruzzo. Pasquale non aveva alcuna esperienza in occupazioni non legate all’agricoltura, ma fece di necessità virtù e lavorò prima come manovale e poi come operaio nel fiorente settore delle infrastrutture nella città di Harrisburg. Al momento di prendere la cittadinanza americana, per evitare forse eventuali ritorsioni o effetti negativi anche sui suoi figli , nati nel frattempo in suolo statunitense, Pasquale decise di americanizzare il cognome, spezzando inesorabilmente il contatto con il suo paese d’origine. Fortunatamente da quel che ne so, il vecchio Santell non ebbe mai grossi problemi e uscì indenne dalla follia di certe teorie pseudo-scientifiche che reputavano alcuni uomini inferiori ad altri, ma negli USA dopo le persone di colore, i nostri connazionali detti sprezzantemente “dago” o “wop” ovvero without papiers, non godettero certo di buona reputazione, e sono numerose le testimonianze che rivelano quanto gli italiani fossero comunemente disprezzati e considerati una minaccia sociale.
A tal proposito, il bel libro di Patrizia Salvetti, edito da Donzelli, fa luce su una pagina ancora poco nota della ricca storia (peraltro ancora molto attuale) dell’emigrazione italiana : quella dei linciaggi. “Corda e sapone. Storia dei linciaggi italiani negli Stati Uniti” è un’importante ricerca che la docente di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma ha pubblicato ormai 17 anni fa e che da tre anni è uscita anche negli Stati Uniti (Rope and Soap: Lynchings of Italians in the United States, Bordighera Press, New York 2017). La fortuna di incontrare e leggere certi libri aiuta a comprendere quanto un certo tipo di produzione letteraria e/o saggistica non abbia nulla a che vedere con le mode e con i tempi, continuando a viaggiare sul binario della verità, della compostezza e dell’affidabilità. Nel libro, oltre ai linciaggi realmente avvenuti a danno di cittadini italiani, l’autrice annovera anche quelli evitati e persino quelli annunciati ma mai avvenuti. Salvetti parte dall’inizio, spiegando al lettore da dove provenga la parola linciaggio: Charles Lynch, un colonnello della milizia in Virginia nella contea di Bedford County, durante la rivoluzione americana adottò maniere di giustizia a dir poco sommarie per punire coloro che osavano rivendere i propri cavalli alle truppe inglesi, tant’è che la sua casa in poco tempo si era trasformata in un vero e proprio tribunale. Da allora la pratica del linciaggio si andò via via consolidando negli Usa, pur non conservando una sola forma di espressione ma molteplici. I cosiddetti linciatori non esercitavano il proprio ruolo in un numero preciso, né erano chiari i motivi o i tipi di reati per i quali si decideva di intervenire attraverso il linciaggio: unico denominatore comune era che chiunque infliggesse una violenza funzionale ad un interesse superiore (riportare l’ordine pubblico, eliminare possibili minacce sociali) fosse un cittadino giusto e corretto, che in virtù delle motivazioni anzidette si autoassolveva e veniva assolto di default dai tanti spettatori.
Le ricerche della Salvetti hanno attinto maggiormente all’Archivio ASDMAE ovvero l’Archivio Storico – Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri e fanno inoltre riferimento ad una mostra fotografica sul linciaggio, organizzata a New York nel 2000, dove tra una maggioranza di scatti relativi a linciaggi persone di colore, comparivano due immagini di un linciaggio di italiani avvenuto a Tampa, in Florida, nel 1910. Se i primi linciatori usavano mascherarsi, col trascorrere del tempo il linciaggio avvenne sempre più di frequente a volto scoperto, come a rivendicare la liceità degli atti. I linciatori sapevano che non avrebbero rischiato arresti o sanzioni, quindi non temevano nessuna ripercussione e persino la stampa locale andava incontro a loro e a chi li sosteneva, talvolta indicando ora e luogo del linciaggio. Gli stati americani maggiormente interessati da questa pratica furono quelli del Sud, in primis Louisiana e Mississipi e, come anzidetto, il maggior numero delle vittime di linciaggio furono persone di pelle nera (più di 3000 accertate dalla seconda metà dell’800) . Tra i bianchi il popolo più bersagliato fu quello italiano, mal visto da gran parte della società americana del tempo, poiché pur non essendo neri gli italiani venivano considerati degli ibridi, un popolo intermedio, non completamente bianco. Vittime di stereotipi assai tristemente noti (sporcizia, inaffidabilità, indolenza), gli italiani erano detestati soprattutto dagli americani di classe media perché tendevano ad economizzare. Risultava sospetto inoltre, agli occhi di gran parte della società americana, la “familiarità” tra italiani e neri, ovvero il fatto che gli italiani generalmente convivessero abbastanza tranquillamente con la popolazione nera, senza provare repulsione nei loro riguardi. Il primo linciaggio italiano accertato avvenne nel 1879 nel Nevada e l’ultimo nel 1910, a Tampa. I linciaggi erano premeditati, non si trattava di esplosioni estemporanee di violenza , e parte degli italiani che avevano assistito a casi di linciaggio, ebbero spesso paura di testimoniare contro i linciatori , sempre impuniti come detto, non essendo il linciaggio un reato federale. Il gran numero di lavoratori italiani presenti negli Stati Uniti, pur godendo teoricamente di tutela da parte di consoli e ambasciatori statali presenti in loco, lamentava spesso sulla stampa italiana in America e talvolta anche in Italia, la pressoché totale assenza dello stato dinanzi a questi episodi ,che di fatto si risolvevano con l’impunità dei linciatori e l’offerta di indennità ai parenti delle vittime. I linciaggi che hanno interessato gli italiani e le cui vicende sono state magistralmente ricostruite dalla ricerca della Salvetti , raccontano di impiccagioni e scempiamenti di corpi avvenuti per motivi più disparati: da una capra che sconfinava in un giardino contiguo a tensioni per concorrenza lavorativa, da accuse di stupro a omicidi, fino a proteste per aumenti salariali . La pratica del linciaggio terminò nel 1968 e le scuse pubbliche del Senato Americano arrivarono nel 2005: sul triste podio dei popoli più bersagliati, dopo afroamericani e cinesi, gli italiani si aggiudicarono una presenza per nulla invidiabile. Una memoria questa, che val la pena tenere in luce, ancora di più in questi giorni in cui il “nemico”, il “diverso”, il “disonesto” si annida misteriosamente ovunque, senza più neanche il colorito della pelle a fare da presagio .
Saggi
Donzelli
2003
160 p.,