Il terrazzo
Di Daniela Ginex
Sophie aveva creato un nuovo angolo fiorito nel suo terrazzo e lo mostrava orgogliosamente alle amiche Nora e Alberta.
– La sedia in ferro battuto l’ho presa al mercato delle pulci, il vaso è un orcio che si era rotto e ho pensato di riutilizzarlo in questo modo, il tavolino me l’ha costruito il falegname con dei frammenti delle piastrelle che ho usato per il decoro della cantinetta…
Mentre illustrava i procedimenti, Sophie accarezzava le peonie costrette a fiorire nel migliore dei modi in quel rottame fortunosamente promosso a vaso.
Alta e slanciata, svettava in piedi accanto alle amiche sedute su un divanetto bianco troppo basso, i lunghi capelli lisci di un tiziano acceso. I movimenti delle mani erano accompagnati dal suono di svariati bracciali di legno e dal frusciare del caffetano a tinte forti lungo fino ai piedi, i quali calzavano un paio di pianelle basse costituite unicamente dalla suola, una sottile fascia e un anello di pelle gialla che girava intorno all’alluce.
– Il riutilizzo, sì questa è una cosa molto importante, detesto l’abitudine di gettare continuamente, comprare cose nuove…
Le amiche approvavano annuendo vigorosamente. Il terrazzo, per quanto ampio, era affollato da innumerevoli vasi di ogni sorta, molti dei quali pendevano dal soffitto, ceste, piccole panche, tavolini e vari arredi da esterno, per lo più di gusto esotico, che Sophie, come non mancava di ricordare, aveva scovato in qualche imperdibile mercatino locale nei suoi innumerevoli viaggi.
Nora guardò l’orologio.
– Donna Elide dovrà essere qui a momenti… mi ha telefonato per dire che l’autista oggi l’aveva piantata e doveva prendere un taxi.
Seguì un sospiro condiviso.
– Non ci si può mai fidare.
Sophie si avvicinò alla porta finestra e chiamò con voce ferma.
– Lilla, porta le bibite.
Alberta, che stava studiando con attenzione uno splendido pelargonium di un giallo acceso, si voltò verso l’amica.
– Ma che, non ce l’hai più quella di colore?
– Ma per favore, non me ne parlare. Che ne sai, ha vinto un concorso e mi ha lasciato.
– Un concorso? Bella questa. I nostri giovani sono disoccupati e…
Anche Nora ritenne di dire la sua.
– Anche la mia se n’è andata, sapete. È tornata a casa sua, sono disperata. Non si può mai fare affidamento su queste persone. Ora ho una rumena, ma si sa con i rumeni, una volta devono tornare al paese, una volta gli capita un’altra cosa e ti mandano sua cugina. Una disperazione.
La colf entrò con un vassoio e servì le bevande fresche, quindi si ritirò. Il profilo arrotondato del suo addome lasciava spazio a pochi dubbi. Appena si fu allontanata, Alberta sussurrò la sua perplessità.
– Ma è incinta?
Sophie, che era seduta su un bracciolo, si passò una mano fra i capelli e sospirò.
– Non mi dire niente. Un mese dopo che l’avevo presa mi ha dato questa notizia.
– Ma è sposata?
– Ma che sposata, sì sposata. Mi ha pregato di tenerla, che lavora fino all’ultimo, si è messa a piangere. Che dovevo fare.
– Sì, e poi ti fa la vertenza. Non ti fidare.
– Ma queste poi, mah, in certi ambienti, fanno figli con uno, poi con un altro. Altro che sposarsi e mettere su famiglia. Sono allo stato brado.
– Però, ti dico una cosa: sempre meglio degli extracomunitari, per me, eh. Almeno ci puoi parlare, ci si capisce.
– Jasmine mi ha mollato in un momento… ero appena tornata da Chicago, manco il tempo di fare la valigia per Gerusalemme. Uno stress. Figuratevi che mi sono dovuta attaccare io la lavatrice.
Alla rivelazione di Sophie, Nora e Alberta ammutolirono, il volto trasfigurato dalla compassione per l’amica costretta a così vili incombenze, ma anche dall’ammirazione per la sua audacia nel fronteggiare la circostanza.
Sophie, moglie di un illustre luminare della medicina, si prestava volentieri ad accompagnarlo nei suoi frequenti viaggi per congressi.
– Per ora ho trovato questa, vediamo. Poi se trovo di meglio…
– Ma certo. Se no ti devi anche sciroppare tutto il periodo dell’allattamento… e poi vedrai, con un bambino piccolo ogni scusa sarà buona per non venire a lavorare.
– Io ne avevo una con una bambina di due tre anni, spesso e volentieri pretendeva di portarsela, e la piazzava davanti alla tv a mangiare merendine e sporcava tutto, a parte poi come può lavorare una che ogni minuto deve guardare un bambino? Niente, l’ho mandata. Eh, mi dispiace cara mia.
Lilla uscì in terrazzo per annunciare l’arrivo di donna Elide. Tutte e tre le amiche si alzarono in piedi per accoglierla.
– Carissima.
Sophie andò incontro alla matrona sorridendo.
Donna Elide era più anziana del resto della compagnia, e questa circostanza, oltre alla sua posizione all’interno del club, la più alta carica – portava le amiche a un atteggiamento di particolare riguardo.
La vetusta signora era elegantissima in un impeccabile abito azzurro, corredato da accessori color crema altrettanto raffinati. Completavano l’insieme una collana e un paio di orecchini di perle e un foulard di seta drappeggiato con studiata negligenza. La chioma, manco a dirlo, era perfetta.
– Elide. Cara Sophie, pretendo che mi chiami Elide. Dammi del tu, per favore.
L’invito, per quanto volto a creare un clima disteso e informale, suonò piuttosto perentorio.
Le donne si sedettero nuovamente e fu offerto da bere a donna Elide. Dopo un breve scambio di convenevoli, si venne al dunque.
– Allora, come al solito per Natale il club organizza il pranzo di beneficenza. L’anno scorso è stato alla Caritas, ma io direi magari di farlo in un altro posto. Un po’ per cambiare, un po’ perché devo dirvi francamente che don Attilio non è stato molto… molto collaborativo.
Il muto consenso delle amiche indusse donna Elide a continuare.
– Avevo preso dei contatti con la Casa della Carità, le suore sono sempre tanto carine e non hanno grilli per la testa. Se voi siete d’accordo… come ogni anno, ognuno di noi potrebbe preparare una pietanza e faremmo il pranzo un paio di giorni prima di Natale.
Alberta si riscosse dal lungo silenzio imposto dalla deferenza.
– Io faccio fare a Cettina i maccheroni con le polpette, che l’anno scorso si sono leccati i baffi.
– E io porto la pasta al forno. E lo sformato di verdure.
– A proposito, ho un sacco di panettoni e pandori, a mio marito riempiono l’ambulatorio… non so proprio dove metterli. Potrei portarli.
– Ma certo. E poi organizziamo la tombola. Per i regali coinvolgiamo tutte le socie.
– Benissimo! Così possiamo partire subito, a gennaio, con il programma dello zaino per i bambini delle famiglie disagiate. Abbiamo il tempo di scegliere i nominativi. Quest’anno opereremo a Librino.
– A Librino, mamma mia che brutto quartiere.
– Ci sono posti a Catania che uno non ci crederebbe.
– E la delinquenza. Guardate, quando vado al cimitero dico a Roberto di accompagnarmi fino a sopra, che c’è da spaventarsi.
– E la droga? Se penso quanta droga circola in questi posti…
– Droga, delinquenza, prostituzione… di tutto.
– Strade rotte, palazzi abusivi, sporcizia… uno scempio.
– Certo non è che lo Stato faccia molto.
– Ma anche se fa qualcosa, loro non la fanno durare. Vi ricordate la bambinopoli?, dopo due settimane era tutto distrutto.
– Sono loro stessi che non vogliono migliorarsi.
– Mamma mia, certi quartieri bisognerebbe raderli al suolo. È inutile, la testa di certa gente non la cambi.
– Perché sono loro che non vogliono cambiare per primi.
– È più facile vivere senza faticare. Spacciare droga, la scorciatoia. Ora con questo reddito di cittadinanza siamo a posto, meglio fare i parassiti.
– E poi ci meravigliamo.
– Ci vorrebbe una bella bomba. Una bomba per distruggere tutto.
– L’ignoranza, l’ignoranza è il male peggiore.
– Ma la cosa più brutta è che loro ci stanno bene, nell’ignoranza. Non fanno niente per cambiare la loro condizione. Altro che destino. Se la sono scelta loro, questa vita.
Il sole, ormai al tramonto, accendeva di un arancio dorato i fiori nei vasi e faceva risaltare la bellezza sfolgorante degli oggetti. Una brezza leggera cominciava a rinfrescare l’aria. Un momento perfetto, appagante.
Le amiche sentirono all’unisono l’armonia del cosmo.
Lì, in quel terrazzo al piano attico, in alto, così lontano dalla strada.
L’immagine di copertina è Terrazza siciliana di Antonino Cammarata, presa da ioarte.org