La vacanza
Di Paolo Massimo Rossi
Era una giovane donna distinta ed elegante, quasi evanescente nell’aspetto, sì che a una prima impressione lasciava sottintendere una personalità semplice e priva di ardori. Era certo una villeggiante che trascorreva un periodo di vacanza in un albergo costruito a pochi metri dalla spiaggia, di fronte al mare d’Abruzzo. La stavo osservando mentre era distesa in una sdraio estiva e mentre guardava fissamente il mare piatto e incolore al di là della terrazza. L’Adriatico, di solito verdeazzurro, conservava una sua malinconica suadenza nella giornata priva di sole. Il cielo era grigio, anomalo per la stagione, e l’aria afosa sembrava di ostacolo a qualunque movimento. Il termometro segnava trentadue gradi.
Un uomo dall’ atteggiamento arrogante le si accostò cominciando a parlare. Lei sembrava non ascoltare e quello sembrò alterarsi, come contrariato dall’ indifferenza della donna. In quel mentre, mi si avvicinò un conoscente che avevo più volte incontrato e che, probabilmente, frequentava da sempre quella località di villeggiatura marina, poco a sud di Pescara. Si presentò dicendo di chiamarsi Augusto e inopinatamente mi chiese se anch’io avevo notato quella coppia così male assortita.
Li osservai con maggiore curiosità: l’uomo era in costume da bagno e sembrava voler convincere la donna a cambiarsi per tuffarsi insieme nel mare; ma lei restava in silenzio, conservando un atteggiamento di totale disinteresse alle parole che il marito le rivolgeva. Improvvisamente, gli chiese, senza il minimo timore di poter essere ascoltata dai presenti, se aveva passato una notte interessante con quella sgualdrina. La voce, che era stata a malapena intellegibile sino a quel momento, e che sembrò connotata da un accento straniero, salì di tono quando ripeté ancora: «quella sgualdrina.» L’uomo si guardò intorno per sincerarsi che nessuno avesse udito, poi tornò a fissare la moglie che, con veemenza, ripeté ancora: «Una sgualdrina!». Quello, stando in piedi, la colpì con uno schiaffo sul viso facendola voltare da un lato. La donna sembrò tremare per un attimo, poi gli disse semplicemente che lo compativa. Lui si voltò e si diresse verso la scala che scendeva alla spiaggia. Augusto, che per tutta la durata dell’alterco mi era rimasto accanto in silenzio, osservò che in quella coppia spesso sembravano susseguirsi momenti di turbolenti disdegni e di quiete riappacificazioni. Non ne sapevo più di tanto, ovviamente; trovavo solo ignobile e volgare l’atteggiamento di quel marito preda di una cialtronaggine probabilmente usuale. Non tutti avevano notato la scena; l’atmosfera era troppo carica di ammiccamenti personali, e lasciava sottindendere la voglia dei presenti ad attrarre l’attenzione soprattutto su se stessi, sui complimenti reciprocamente esibiti, sulle affettuosità che sarebbero state presto dimenticate, su quel mare verdemoccio che, di certo, sarebbe tornato splendente di sole e colore già dal giorno successivo. Solo più tardi, lo schiaffo sarebbe diventato oggetto di pettegolezzi indiscreti.
Intanto, l’aria stagnante e immobile sembrava in attesa di una tempesta che aleggiava senza decidersi a scoppiare.
Augusto, che era rimasto sul terrazzo, sembrò disinteressarsi della coppia e mi chiese se ero abruzzese. Risposi di no, ma che da molti anni frequentavo la regione e ne conoscevo ormai spirito e geografia, per quanto possibile.
Volsi lo sguardo verso l’angolo dove immaginavo si trovasse ancora la coppia di villeggianti, ma notai, con disappunto, che erano andati via.
In quanto a stelle, l’albergo era di classe elevata. Ogni mattina, cameriere vestite di blu adornavano di fiori freschi i piccoli tavoli graziosamente disposti sulle verande, in modo tale da permettere agli ospiti di godere in comune della vista del mare. Ne risultava un’acquiescente disposizione ad adattarsi a promiscuità da abbellire di cortesia bon vivant. Facile atteggiamento, considerando la bellezza dell’ambiente.
L’ edificio si trovava proprio sul mare e, dalla terrazza, si scendeva direttamente sulla spiaggia, ombreggiata sul lato rivolto verso la terra, da tamerici e da pini marittimi. Una corona di vegetazione che doveva risalire all’epoca dannunziana.
Avevo voglia di rivedere quella giovane donna e, approfittando dell’apparente intimità con il mio conoscente Augusto, mi decisi a chiedergli se conosceva il nome della donna. «Selva», mi rispose, e aggiunse che doveva essere belga o forse tedesca, che era sposata da anni con quell’uomo – evidentemente un italiano di bassa cultura – con il quale viveva a Milano in una splendida casa e che, all’inizio, il loro era stato un grande amore. Lei leggeva poesie di Rainer Maria Rilke, concluse ammiccando, con un’allusione che mi apparve poco attinente al discorso.
Pensai che le informazioni fossero anche troppe per me. A volte le comitive diventano propense alla critica pettegolistica, pavoneggiandosi in abiti di noncurante eleganza, e in momenti in cui tutti sembrano propensi a condividere amicali sorrisi che finiscono, più tardi, per essere accomunati da nascosta ferocia.
Intanto, anche durante il giorno successivo, continuò un caldo che rendeva madide di sudore le facce dei villeggianti. Un presunto medico raccontava ai vicini di tavolo degli effetti benefici del tè bollente contro la calura estiva. Rispondendo, un tizio al quale gli altri si rivolgevano chiamandolo «Onorevole», contribuiva allo scambio di opinioni al riguardo esaltando le virtù dei bagni bollenti, in vasca e non sotto la doccia.
In quel momento, ricomparve la coppia formata da Selva e dal marito. Nulla, nel loro atteggiamento, faceva pensare al precedente litigio. Erano stretti l’uno al braccio dell’altra come se temessero che un improvviso contrattempo li potesse separare e loro volessero, invece, restare uniti a tutti i costi, evidentemente per mostrare un atteggiamento di amorosa intimità. Lui le chiese se desiderasse qualcosa da bere e lei rispose che avrebbe bevuto semplicemente dell’acqua ghiacciata.
La osservai: aveva il viso estremamente pallido. Il marito le fece osservare che bere acqua ghiacciata sarebbe stato un azzardo con quell’afa opprimente. Un’ eccentrica pantomima, una scena melò, un tranquillo conformismo esibito per l’occasione sul volto di entrambi, o meglio una finta riappacificazione a uso della piccola folla dei presenti. Eppure nulla sembrava meravigliare gli astanti. Augusto, appena arrivato sulla terrazza, si affrettò a informarmi che l’uomo era rappresentante di pentole e stoviglie, dalle più dozzinali alle più pregiate esistenti sul mercato.
Mi chiesi se Selva fosse stata adusa a cucinare per quel marito bellimbusto; mi risposi essere una notizia poco interessante, visto il momento contingente. Dopo qualche minuto, lei sembrò accorgersi di me mentre le passavo accanto per dirigermi verso il bancone bar. Era ancora in piedi, e mi scrutava con aria perplessa, come se avesse compreso che il giorno precedente era stata oggetto di chiacchiere tra me e Augusto. In quel momento un colpo di vento sollevò le bianche tovaglie dei tavoli e il suo vestito leggero, lasciando scoprire per un attimo le gambe. Lei abbassò gli occhi e si ricompose, poi si allontanò, esile figura qual diafana libellula avvolta in un abito di tulle frusciante. Il mio conoscente, di nuovo accorso al mio fianco, mi mise al corrente che avevano una grande barca a due alberi con cui avevano in programma una traversata mediterranea. Avevano chiesto proprio a lui se valeva la pena arrivare sino a Cattaro, un luogo adagiato nella tranquilla continuità della costa di fronte, nel grigio anonimo di un mare e di un’atmosfera sempre nebbiosa. Onestamente stufo di ascoltarlo, osservai che non avrebbero sofferto il mal di mare. Stava per rispondermi ma tacque, facendomi un cenno con la mano come volesse esortarmi a prestare attenzione. Selva si era alzata per fermarsi alla reception dietro la colonna d’alabastro, dove si era rivolta al consièrge a voce alta: «Mi dia la quarantacinque». Il marito ebbe un moto di stizza, senza curarsi della gente d’intorno. Augusto mi chiese, allusivamente nel tono e nell’espressione del viso, se avessi capito chi fosse il destinatario dell’enunciato numerico. Lasciai passare qualche minuto, poi mi alzai e mi diressi alle scale che dal salone dell’hotel portavano ai piani superiori. Bussai alla porta della stanza quarantacinque. Selva aprì e, dopo un attimo di esitazione, mi fece segno di entrare senza profferir parola, richiudendo subito l’uscio alle mie spalle. Mi fissava con uno sguardo che sapeva di stupore e impazienza. Perché non dicevo nulla, come almeno la buona educazione avrebbe richiesto? Probabilmente tacevo per una qualche indefinibile paura. Sentivo che il mio comportamento non era corretto; certamente lei era abituata al fatto che gli uomini restassero muti e turbati di fronte alla sua bellezza. Rimasi in piedi e in silenzio per più di dieci minuti, mentre l’imbarazzo continuava ad aleggiare tra noi. Mi restava addosso la sensazione dell’inopportunità del mio agire e il disagio di chi si stava comportando in modo ridicolo. Ero impacciato, è vero, ma non ero stato maleducato; in fondo, cos’era mai successo? Una bella signora mi aveva invitato a salire da lei, per quanto in modo non chiaro. Anche se, forse, non era a me che si era rivolta qualche attimo prima, il che giustificava la mia voglia di fuggire. Però, al mio arrivo nella stanza, mi aveva fatto capire che mi stesse aspettando: non potevo sbagliarmi. Dopo un silenzio che mi sembrò interminabile, mi disse, in un francese elementare, che ormai il marito stava per tornare ed era meglio che fossi uscito. Poi, silenziosamente, si diresse dietro un paravento dove iniziò a cambiarsi d’abito; potevo vedere le sue braccia sollevate per infilarsi una camicetta leggera. Aveva ripreso a parlare, ma io non riuscivo ad afferrare il significato delle parole: non si esprimeva più neanche in francese. Le chiesi scusa per il mio comportamento. Lei tornò alla mia vista e si presentò dicendo, in francese, di chiamarsi Selva, con la «e» precisò. Pensai che già conoscevo il suo nome e che, se non avesse avuto un marito, avrei potuto anche chiederle, certo spinto da un ridicolo impulso, di diventare mia moglie. Le rivolsi, invece, qualche parola confusa; lei annuiva, ogni tanto accennava un sì abbassando la testa con naturalezza, come se io fossi stato un antico amante al corrente di tutti i suoi segreti. Con un gesto deciso, mi sollecitò ancora ad andare; lasciai la camera appena in tempo per vedere il marito che chiudeva la porta dell’ascensore dietro di sé. Non aveva notato da quale camera fossi uscito, o forse no; chi poteva dirlo? Più tardi li vidi accedere nella sala ristorante; il marito cercò di prenderla per mano, ma lei accennò un impercettibile segno di rifiuto con la sua. Furono invitati ad accomodarsi da un gruppo di persone evidentemente, anch’essi in vacanza. Il mio tavolo era adiacente al loro. Ascoltai uno dei commensali chiedere se valesse o meno la pena abitare a Milano, un altro se e quando sarebbero partiti, un terzo che sarebbe stato bello se avessero deciso di stabilirsi per sempre in Abruzzo. Selva mi guardava, muoveva le labbra quasi a voler lanciare un messaggio, lessi nel movimento labiale: «Juge des sentiments» o qualcosa di simile. Continuavano a parlare: dove avrebbero trascorso l’autunno? Come avrebbero passato il Natale? Mi parve di sentire Selva rispondere: «Chez nous». Mi alzai, mi diressi al bar dove chiesi un caffè, poi raggiunsi la mia stanza e mi distesi sul letto con la sensazione di aver rimediato a un errore. Uno stato d’animo indefinibile: avevo comunicato qualcosa a una donna bella e misteriosa, ma che cosa? Fuori, la spiaggia era ormai vuota; la piccola cittadina abruzzese era ormai avvolta dal silenzio pomeridiano; il caldo opprimente mi teneva immobile e inchiodato nel letto.
Mi rendevo conto che desiderare di sposare Selva, era un pensiero insensato, in assenza di ragionevoli premesse e considerando che aveva già un marito, anche se i casi della vita sono a volte imprevedibili. Quando la incontravo sul terrazzo o nella sala ristorante dell’hotel, mi parlava con serenità, sorridendo e mostrando sguardi di delicato languore. Con quelli comunicava implicitamente sensazioni di cui la maggior parte delle persone, per una tacita acquiescenza a comportamenti rispettosi delle usanze, preferiva non parlare. Mi dava l’idea che fosse intelligente, di un’intelligenza diversa da quella della gente del suo ambiente, più dolce e perspicace. Avrei voluto scoprire in lei qualche difetto fisico o psicologico nascosto, ma Selva nulla lasciava intravedere: era compunta nella sua eterea bellezza. La sera, a cena, ascoltava i commensali senza interromperne, se non raramente, i discorsi. Aveva occhi color malva, naso leggermente aquilino, un deliquiante sorriso e i capelli di color castano scurissimo. Appariva fragile nel suo essere longilinea, con un’aria a volte severa, a volte distratta. Una sera arrivò sola – il marito non era con lei – e mostrava un evidente nervosismo. Si accomodò al tavolo con gli abituali compagni che le parlavano del più e del meno con chiaro imbarazzo. A metà della cena, si alzò dicendo di non sentirsi troppo bene e si avviò alla reception per prendere la chiave. Augusto mi guardò dal suo tavolo con aria ammiccante, sembrava volesse dire: “Cha aspetta? È il momento”. Fantasticai che si sarebbe potuto creare un sottile legame tra Selva e me. Il petulante Augusto si avvicinò e mi disse: “È partito, probabilmente con la sua amante, un’impiegata del suo ufficio, piccola e rotondetta, con la quale pare abbia procreato un figlio.” Come facesse a sapere tutto questo, e perché me ne mettesse al corrente, lasciava intendere un indebito interessamento alla mia vita privata o piuttosto una sorta di impudente interferenza. Dovevo ammettere, però, di aver notato nei modi di Selva una trepidazione non solo accennata, come anche una voglia di confidenza non repressa nel suo sguardo. Non la seguii: non c’erano le premesse per un comportamento del genere. La mattina successiva, sulla terrazza, dove un improvviso vento teso infreddoliva gli astanti, lei mi si avvicinò mentre, appoggiato alla balaustra, osservavo le onde increspate del mare. Mi si rivolse nella sua lingua, sembrava tedesco, senza curarsi se la comprendessi o meno, e come se la cosa non avesse importanza. Parlò a lungo, a volte facendo girare la fede intorno all’anulare della mano sinistra, guardando l’orizzonte e senza mai volgere la testa verso di me. In qualche modo sembrava volesse mostrarmi, attraverso i gesti, un delicato pudore accompagnato da un atteggiamento riservato, mentre le parole, probabilmente, dicevano d’altro. Dopo qualche minuto, sorrise e mi chiese, in un italiano abbastanza coretto, se avessi capito da quale paese venisse; feci cenno di no con la testa e lei chiarì dicendo di essere slovacca.
Mi chiese poi, pur con parole pronunciate in modo non chiarissimo, se ero abruzzese. Disse che era la prima volta che veniva in Abruzzo e che sarebbero stati lieti, lei, suo marito e una coppia di loro amici se li avessi accompagnati a visitare qualche bel luogo turistico sulla costa. Risposi di sì; e lei mi disse di aver sentito parlare di un Abbazia dedicata a Venere non molto lontana. Ne avrebbe parlato al marito, che doveva tornare quella stessa sera, e ai loro compagni di tavolo.
Qualche giorno dopo partimmo con due auto: in quella di Selva lei sedeva accanto al marito, mentre io viaggiavo sul sedile posteriore.
I componenti dell’altra comitiva ci seguivano. Arrivammo nel grande spiazzo davanti l’Abbazia e scendemmo senza che io avessi potuto rivolgerle qualche parola. Dalla seconda auto, scesero anche gli altri: un astronomo fiorentino con la moglie e una coppia di milanesi proprietari di un ristorante alla moda.
Non c’era Augusto, malgrado mi avesse comunicato che avrebbe partecipato alla gita.
Cesare, il marito di Selva, mi chiese che lavoro facessi, poi si guardò intorno e mi fece notare che se un’Abbazia del genere fosse stata a Milano o almeno in Lombardia, sarebbe stata tenuta con ben altra cura e perizia. Aggiunse che anche sull’albergo aveva da ridire. Apprezzava solo la marmellata e il miele naturale che offrivano a colazione, tutti alimenti che, pur cari di prezzo, si potevano trovare anche a Milano.
Poi aggiunse che da queste parti non è che si avesse molta voglia di lavorare. Il ristoratore milanese fece notare che non amava affatto il dialetto che ascoltava, e che, del resto, lui il foggiano non l’aveva mai capito.
La moglie gli dice di farla finita. E a me: “Non lo prenda sul serio, in fondo è una brava persona.”
Vorrei ritrovare Selva, mi affaccio nel portico del chiostro ma non la vedo. L’astronomo mi chiede cosa c’è in fondo alla valle; rispondo: “Terreni agricoli e un fiume abbastanza grande, più a ovest, verso i monti, c’è un grande stabilimento industriale.”
Il milanese osserva che avrà avuto certamente dei finanziamenti dallo stato per insediarsi.
Mi allontano sperando di incontrare Selva, entro nella grande Abbazia e scendo nella cripta. Lei è là, immobile, intenta a osservare la volta e i sottili pilastri che la sorreggono. L’ambiente è carico di ombrosa armonia, immerso in un silenzio che suggerisce di parlare sottovoce. Vorrei approfittare del momento in cui siamo soli per rivolgerle qualche parola e abbracciarla. Come avrebbe osservato Augusto, poteva essere il momento adatto. Mi avvicino ma, in quel momento, sento scendere vocianti gli altri del gruppo.
A sera tornammo in albergo. Non avrei cenato nel salone ristorante. Presi solo un panino al bar. Più volte notai lo sguardo di Selva rivolto a me: aveva un non so che di languido e provocante allo stesso tempo.
Certo la bellezza suadente dei posti visitati durante la giornata, come anche la dolcezza dei panorami, acuivano il mio desiderio improvviso e in fondo irragionevole di raggiungere una sensuale intimità con lei. Il mare, che nel suo ampio seguire la costa formava un arco di armonico respiro, favoriva l’abbandono a sogni che non apparivano più impossibili. La figura di Selva restava nei miei desideri, senza altra presenza che la mia: il marito, gli amici, i loro discorsi insulsi erano spariti dalla mia mente. Ero solo ammaliato e, forse, in uno stato di sciocco sognare. In quel momento, complice l’atmosfera e la calura dell’estate, l’estasi sognata era più forte di qualunque ragionevole considerazione
La coppia era tornata a Milano al termine delle vacanze e io li avevo raggiunti senza che lei ne sapesse nulla. Mi potevo trattenere solo due o tre giorni. La casa di Selva era una villa stile Liberty e aveva un grande giardino sul retro. Avevo intravisto il tutto seguendo quell’istinto che mi spingeva a comportarmi in modo irresistibilmente ridicolo. Aspettai per una mezz’ora nascosto in una rientranza del muro, poi vidi Cesare uscire in auto dal cancello del giardino. Mi feci coraggio, tornai sul fronte principale e schiacciai il campanello posto accanto al portone d’ingresso. Mi aprì una donna in grembiule e veletta bianca sulla fronte che mi chiese chi fossi; risposi che ero atteso dalla signora Selva. Mi pregò di attendere.
Selva arrivò dopo qualche minuto e, parlando in francese, mi disse che non mi aspettava e che era molto sorpresa di vedermi. Se ne stava in piedi, sulla soglia di una stanza nella quale s’intravedevano un grande soffitto a volta, un pianoforte a coda e alcuni divani e poltrone. Mi invitò ad entrare e ad accomodarmi in un sofà rivestito di stoffa ricamata di colore rosa. Su una parete vidi due paesaggi incorniciati, una cascata e un’alba sul mare. “Qualche volta mi dedico alla pittura” mi disse. Nel centro della volta, affrescata con disegni floreali, era appeso un lampadario in ceramica a sei bracci in mezzo ai quali si cullava una piccola aquila in procinto di prendere il volo. L’arredo era troppo lezioso e ridondante per il mio gusto. Quella, dunque, era la casa di Selva, e quello era il salotto dove, appoggiati sul pianoforte, c’erano i ritratti di famiglia, probabilmente quella del marito. Vidi piccoli tavoli d’epoca, altri quadri alle pareti, mentre, addossata a una di queste, troneggiava una grande cristalliera contenente graziose figure in porcellana: un cerbiatto, delle tazzine, un cane nell’atto di digrignare i denti con un’espressione ebete ed enigmatica, altri ninnoli e piatti istoriati. Mi chiese ragione della mia visita; risposi che doveva aver certo capito come fossi innamorato di lei. “Sono una donna sposata,” mi fece notare con severa semplicità. Dissi che non ero venuto a chiederle di divorziare. “E per cosa, allora?“ Rispose con un’espressione ironica sul volto. Poi, con un tono aggressivo e sforzandosi di pronunciare correttamente le parole in italiano, aggiunse: “Forse vuole semplicemente fare l’amore con me? Lei crede che io sia una puttana?” Quelle parole furono come uno schiaffo che mi colpì con violenza. Preso da un improvviso imbarazzo, aspettai un attimo prima di dichiararle l’onestà dei miei intendimenti, e che non pensavo affatto a una cosa del genere. “Lei è un bugiardo e un ipocrita. Crede che non l’abbia vista parlottare con Augusto, sul terrazzo dell’albergo? E Augusto sa tutto di me, sa che Cesare, mio marito, mi ha conosciuta in una casa di tolleranza da cui mi ha fatto uscire per sposarmi e che, da allora, non ho più frequentato nessun altro uomo, oltre Cesare, ovviamente. Ma Augusto, con la sua volgare e insulsa voglia di provocare e di mostrare un irragionevole rancore, gode a infangare una donna che ormai ha trovato una nuova serenità e una nuova vita. Avrà goduto a raccontarle episodi squallidi e piccanti che conosce molto bene, visto che era un cliente abituale di Via dei Fiori. E non voglio sapere cosa le ha detto, anche se posso immaginarlo. Deve essere convinto che mio marito sia pentito della sua scelta e che adesso voglia offendermi accompagnandosi a sgualdrine nelle quali vorrebbe ritrovare quell’emozione che lo stordiva quando frequentava quel posto ignobile.” Tacque per una decina di secondi, durante i quali mi sentii stupido, fuori posto, con addosso la voglia di andarmene. Poi continuò: “E non sia così sciocco da fingere di non sapere. Forse la vacanza in Abruzzo le ha annebbiato le idee.”
La sera era chiara, con un’aria ancora estiva, e dalle grandi finestre verso il giardino entrava il profumo delle rose sistemate in aiuole contornate di sassi bianchissimi lungo il muro esterno. Pensai ad Augusto e al suo atteggiamento scioccamente ammiccante; forse conosceva veramente il passato di Selva, forse il suo era stato un modo sottile di vendicarsi di un qualche torto che pensava di aver subito. Selva continuava a parlare, lasciandomi stupìto per come mi si rivolgeva confessando aspetti del suo passato che avrei preferito non ascoltare. “Ed è venuto qui pensando di poter usufruire dei miei favori? Fidando sul suo fascino o comprandoli? Forse è stato vittima dei panorami di quei luoghi dove trascorremmo una vacanza e dell’atmosfera suadente di quel mare?” Il mio disagio cresceva, simile a una paralisi che si faceva via via più dolorosa per l’estraneità che mi comunicava quella situazione assolutamente imprevista. Il viso di Selva non sembrava essere in armonia con le parole che, pur pronunciate con un tono signorile, sembravano sottintendere una volgarità che faticava a restare nascosta. Pensai che nel suo intimo forse rideva di me, dei miei atteggiamenti ridicoli, quelli che le avevo mostrato in albergo, come anche quelli che il mio volto restituiva alla situazione che si era creata. “O forse pensava che avrei accettato le sue proposte solo per rendere pan per focaccia a un uomo che mi ha illusa, che mi ha fatto sognare, finendo, infine, per ricordarmi da dove vengo e che, proprio per questo, non mi ritiene degna di essere amata?” Si era seduta accanto a me, eretta e rigida sul bordo del divano con un’aria aggressiva e, insieme, stranamente distaccata. Non riuscivo a comprendere come si fosse potuta abbandonare a quella confessione così amara e così sfacciatamente confidenziale. “E dunque,” continuò, “Vuole essere finalmente onesto a confessare lo scopo della sua visita? In albergo era venuto nella mia camera pensando di trovarmi già svestita e pronta, ingannato certamente da Augusto che non aveva idea di cosa io pensassi – e non pensavo nulla, mi creda – e adesso è venuto qui, in casa mia, spinto da un equivoco di cui, immagino, adesso si vergognerà. Potrei invitarla a salire in camera da letto – magari ci spera ancora – dove, se ci accoppiassimo, le farei toccare il paradiso dei sensi. E invece dovrà restare con la voglia di sapere di più. Potrà raccontare ad Augusto di aver goduto del piacere che solo una puttana tra le più famose di Milano può dare. Vada, glielo racconti, gli dica quanto sono stata dolce e allo stesso tempo volgare, come le abbia offerto le mie labbra, il mio corpo e carezze che, probabilmente, né lei né lui avete mai neanche immaginato.” Le chiesi il permesso di andare via; lei restò in silenzio e io uscii senza altro aggiungere. Dunque era stato tutto un equivoco, avevo scambiato l’eleganza dei modi per un invito erotico; mentre lei aveva erroneamente supposto che, convinto dalle insinuazioni di Augusto, mi ero illuso di poterla possedere semplicemente pagando.
Uscii con un senso di oppressione nell’animo, e camminando pensai che Selva viveva nella sua bella casa come se fosse sempre stata in attesa di qualcosa, con l’indefinita coscienza che si sarebbe scoperto, prima o poi, che significato avessero l’eleganza degli arredi, la fredda professionalità della cameriera, o la visita di uno sconosciuto che lei stessa aveva invitato, per negargli subito ogni amicale accoglienza. Mi abbandonai a riflettere: Selva mi aveva intenzionalmente attirato in casa sua, adesso ne era certo. Forse anche lei era attratta da me, solo non voleva ammetterlo con se stessa. Non sapevo nulla di lei, ma che vuol dire sapere? Fino a che punto si può conoscere qualcuno? La breve vacanza in quell’albergo era stato tutto un inganno? Esiste un limite alle velleità sentimentali con cui si può inseguire un’anima? Mi ero lasciato andare a sogni improbabili. Pensavo che poteva esistere un altro mondo, oltre la dimensione a cui tutti siamo abituati e, in quello, vivere in modo più reale di quanto facciamo in questo, allora immaginavo di condividerlo con Selva: suadenza dell’immaginazione.
Dunque dovevo dimenticare Selva e i suoi equivocati ammiccamenti: un’irraggiungibile e perfetta falsificabile verità e un falso nebbioso da traguardare come rappresentazione del vero.
Lasciai Milano cercando di sentirmi estraneo agli ultimi avvenimenti.
Il giorno finiva, iniziava la notte.
L’immagine di copertina è La mer a Sainte Adresse, di Raoul Dufy