Dall’abiura della trilogia della vita all’universo orrendo di Salò.
“Piango un mondo morto./Ma non
sono morto io che lo piango./ Se
vogliamo andare avanti, bisogna che
piangiamo/il tempo che non può
tornare, che diciamo di no/ a questa
realtà che chi ha chiusi nella sua
prigione/… Così non si può più
andare avanti./Bisogna tornare
indietro e ricominciare tutto daccapo.”
(La nuova gioventù)
Alla razionalità dell’universo borghese il Fiore delle mille e una notte sovrappone, rimuovendola, lo spazio – tempo dell’eros, il recupero e il mito del corpo però nella distanza e con il timbro del sogno. Il film, infatti, è un insieme di sogni che si dissolvono l’uno nell’altro; sogno e gioco si palesano come i soli strumenti di lettura e di orientamento labili e insidiosi. “Di qui quel senso di appagamento, di tranquilla contemplazione delle innumerevoli e cangianti manifestazioni dell’eros […] domina una necessità che si incarna e modella provvisoriamente nei singoli, ma persiste e si rinnova, sempre uguale a se stessa, ben oltre la parzialità di questi […] un’aspirazione ad un impossibile stato di non responsabilità nella felicità e nel dolore, ma vanificata dalla stessa leggerezza di peso, dalla non revocabile intermittenza dei sogni” [1].
Descrizione quindi, di un “terzo mondo” di sogni, alla luce del quale anche la conclusione (‘Come potrei dimenticare quella notte? Il suo inizio fu amaro, ma come dolce la sua fine?’) sembra ambigua; non un’esaltazione di una ritrovata vitalità, bensì semplice commiato. Parallelamente a questa poesia della regressione e del commiato dei “popoli perduti”, Pasolini svolge l’attività del pubblico agitatore di idee, isolato sì, ma non rassegnato al silenzio. Produce una serie di articoli, recensioni, (sia di argomento letterario che culturale), sempre però attinenti alla sfera del costume, della politica, dei comportamenti pubblici e privati, pubblicati tra il 1973 – 75 sul “Corriere della Sera” sul “Tempo illustrato”, su “Epoca”, “Il Mondo”, “Paese sera” e raccolti in un volume di Scritti Corsari (la seconda parte dei quali è costituita da Documenti e Allegati, cioè le anticipazioni critiche Descrizioni di Descrizioni).
Essi sono un esempio dell’invettiva inesauribile del suo stile saggistico e polemico, della sua arte retorica e dialettica. In questa critica della società industriale, Pasolini ha anche inventato un linguaggio giornalistico, “un genere”. Il suo stile infatti, è violento e candido nella qualità, ma riesce ad essere poetico perfino nelle provocazioni.
Questi scritti mostrano, dietro una presunta occasionalità, evidente interesse per determinati temi quali: la rivoluzione antropologica operata dalla borghesia, l’omologazione culturale, la scomparsa del sottoproletariato, la strategia della tensione, il terrorismo.
Per Pasolini i concetti sociali e politici diventano evidenze fisiche e miti, avendo così finalmente modo di mostrare e rappresentare le sue angosce.
“solo ora gli è possibile ritrovare uno spazio che sentiva perduto negli anni precedenti e usare in modo diretto la propria ragione autobiografica per parlare in pubblico del destino presente e futuro della società italiana, della sua classe dirigente, della fine irreversibile e violenta di una storia secolare” [2].
In un testo inedito, mai pubblicato approvato per il “Tempo” poi raccolto in Caos, Pasolini notava come il caos abbia travolto buona parte dell’Italia. Egli attribuiva la responsabilità di tale caos mentale sia alla sottocultura, sia all’ignoranza. Esso infatti si manifesta in due modi: uno immobile – il cui esempio era riscontrabile nella visione televisiva del programma ‘Canzonissima’ da parte degli italiani – e uno in moto, generante un caos sempre maggiore – ipotizzabile nell’ordine fascista.
Ciò che accomuna e si ritrova in ogni articolo degli Scritti Corsari è la persuasione che “finché il potere immobilizza e lega a sé la massa attraverso quell’ideologia edonistica di cui esso ha l’illusione della realizzabilità (e in effetti per quel che riguarda i beni superflui, ha potuto renderla in parte realizzabile) esso non ha bisogno né di chiesa né di fascismo. Li ha resi tutti arcaici. La maggior parte degli antifascisti sono ormai tutto e tutti, esso si è fascista, nel senso che impone in modo ineluttabile i suoi modelli [3].
Uno dei temi sul quale Pasolini si sofferma con particolare attenzione è quello dei giovani, mutando quell’atteggiamento ottimistico e positivo che aveva un tempo per far spazio ora ad una loro condanna totale. Dà quindi, ancora una volta, prova del suo carattere incline allo sperimentalismo e alla constatazione personale di come il potere operi all’interno della società, condizionandone i componenti e quindi le scelte.
Sarà proprio la rivolta del ’68 il punto di massima affermazione del nuovo potere in quanto proprio allora, nel momento cioè in cui si stava delineando la forma di una nuova convivenza sociale, la “Rivoluzione operaia” stava andando perduta. I giovani in prima persona hanno assistito al crollo delle speranze marxiste. Già in Tetis (relazioni letta a Bologna al Convegno Erotismo, evasione, merca 1973) Pasolini prefigurava l’idea di una distruzione sistematica, in nome della falsa tolleranza, della corporeità popolare, nella cui riproduzione cinematografica poteva mostrare la possibilità del suo realismo ontologico riscattando la sua tesi rispetto all’inautenticità dei significati e degli usi codificati nella convenzione linguistica narrativa.
Pasolini concentra la sua attenzione e la sua polemica sui giovani, impegnati in manifestazioni studentesche, occupazioni di fabbriche, scioperi, denunciando la loro complicità con la borghesia, in quanto provenienti da famiglie borghesi e in quanto la loro rivolta era assorbita dal sistema. La contestazione si rivelerà a Pasolini solamente come l’ansia tipicamente borghese, di chiedere tutto e di ottenere in pratica il potere. Egli infatti, “ritiene quei fermenti solo delle contestazioni benigne allo stesso potere contro il quale (i giovani) si ritrovano. Benigne perché interne ad esso e perché costituivano il risvolto dell’integrazione borghese che contestava nel generale e assoluto immobilismo” [4].
È trionfo dell’entropia borghese con il conseguente crollo delle aspirazioni operaie e contadine. Si assiste, in queste pagine, al ritorno all’antica antinomia tra la nostalgia elegiaca di un mondo popolare e una civiltà contadina, sentiti come perduti e l’orrore del presente che li assorbe e li annulla.
In effetti se negli anni ’60 i tentativi di rinnovamento, le critiche al sistema borghese segnalavano, interamente all’integrazione con il potere, la volontà di mantenere un’autonoma e critica identità, negli anni ’70 tali ideali decadono. Il boom economico, il miracolo degli anni sessanta avevano mostrato immediatamente il volto povere, impotente a mutare un paese squilibrato (divario tra il nord e il sud) e il cui squilibrio produceva effetti morali, sociali, preoccupanti (emigrazione interna di produzione impensata, depauperamento del patrimonio agricolo). Perfino le forze giovanili, ormai disilluse e incapaci di sperare in qualsiasi cambiamento, accettano il trionfo dell’ideologia edonistica e consumistica. Il potere borghese piega così tutta la società alla logica del consumo e della produzione.
Ogni singola manifestazione è espressione di potere come stabilire se “farsi crescere i capelli fin sulle spalle oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi, […] decidere se sognare una Ferrari o una Porsche, seguire attentamente o programmi televisivi, conoscere i titoli di qualche best – seller, vestirsi con pantaloni e maglietta prepotentemente alla moda” [5]. Tale omologazione culturale ha come conseguenza l’incomunicabilità tra genitori e figli e un totale rifiuto, da parte di questi ultimi, della cultura dei padri. Questi adolescenti, senza alcun rapporto con il passato, quindi con le loro radici, sono giovani insoddisfatti e privi di ogni valore. Essi sono o infelici e criminali o pronti ad accettare tutto ciò che la società conformista propone loro. Tale vuoto di valori ha generato il consumismo, che ha trasformato il mondo – realtà in irrealtà, proponendo del falsi valori in cui credere. La stessa libertà sessuale proposta dal neocapitalismo, ha contribuito a rendere i giovani più aggressivi, nevrotici, chiusi negando loro qualsiasi felicità. I giovani pagano le conseguenze dell’operato dei loro genitori, i quali prima hanno creduto nel regime fascista poi nel regime cleric –fascista (che secondo Pasolini è il regime democratico) e hanno accolto il potere dei consumi senza essere consapevoli delle sue nefaste conseguenze di riconsegnarsi quindi ad un nuovo fascismo.
Questo pseudo – progresso ha spinto i giovani ad omologarsi al modello falso di comportamento che la scuola dell’obbligo – e la televisione sua complice – ha imposto loro. Il ruolo della televisione infatti dal 1970 si è fatto sempre più determinante e autoritario nei confronti dell’utenza e tanto è incisivo il valore del messaggio sul destinatario, che alla fine il pensiero del pubblico si adegua con il progetto dei mass media. Ciò portò Pasolini a dettare il suo programma di riforma: l’abolizione immediata della scuola dell’obbligo e della televisione. Quell’abolizione significava troncare alle radici il male: svezzare un intero paese dalla dipendenza nella quale era caduto. La televisione e la scuola dell’obbligo infatti non erano che strumenti di omologazione sia culturale che politica, in mano al potere. In un dibattito tenuto nell’ottobre 1975 in una scuola di Lecce alla presenza di molti insegnati, Pasolini propone la formazione di un personale modello che nella scuola dell’obbligo sia in grado di affrontare i problemi riguardanti il sesso, l’igiene, ‘urbanistica e nella televisione sia in grado di affrontare temi sociali e culturali in maniera pluralistica e trasparente in modo da porsi come alternativa ai partiti e impedire loro di arrogarsi il potere di monopolizzare la realtà.
Pasolini esprimeva il suo timore nei confronti della televisione che altrimenti lasciata nelle mani di personale non qualificato e potendo contattare, con le sue immagini, migliaia di individui, avrebbe esercitato il suo potere malefico innanzitutto sulla lingua – nella quale egli notava i segni si un netto impoverimento – e inoltre avrebbe forgiato un’umanità nella quale la messa avrebbe fagocitato irrimediabilmente l’individuo.
Il singolo soggetto, dotato di una propria imprevedibilità e incontrollabilità, sarebbe stato annientato per far spazio alla famiglia, classico esempio di uomo – massa: è infatti “in senso alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore: prima per le esigenze della coppia, poi per le esigenze sociali della famiglia vera e propria” [6].
Egli sarebbe così diventato vittima del processo di democratizzazione del processo che impone il suo falso modello di felicità additando a colpa la diversità.
Il neocapitalismo, infatti, ha dapprima proposto poi imposto l’ideologia capitalistica che ha reso sacri il consumo e la merce. La società italiana, infatuata dal nuovo modello di vita prospettato dal Potere, ha accettato tutto ciò, influenzata negativamente dalla televisione (figlia del potere). Questo falso progresso trova nella tolleranza sessuale il suo esempio principe. Una tolleranza non sincera e autentica, in quanto voluta e imposta dall’Atto, che riduce i corpi a pura merce di scambio. “Venuti in possesso della libertà sessuale per concessione e non per essersela guadagnata, i giovani borghesi e soprattutto proletari e sottoproletariati – se tali distinzioni sono ancora possibili – l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L’obbligo di adoperare la liberà concessa […] L’ansia conformista di essere sessualmente liberi trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici eternamente insoddisfatti e perciò infelici. Così l’ultimo luogo in cui abita la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch’egli scomparso” [7].
Il pessimismo pasoliniano si fa totale al punto da arrivare a concepire un nuovo tipo di fascismo (“tecno – fascismo” in quanto forte dell’appoggio della moderna tecnologia) basato sulla pseudo tolleranza e sulla falsa realizzazione dei diritti civili.
In questo affresco apocalittico di Pasolini spicca un universo terribile: una società priva di qualsiasi valore, con una borghesia che ha assorbito in sé tutte le classi sociali causando un’anomala situazione non paragonabile a quella presente negli altri paesi europei industrializzati. Là, in effetti, l’acculturazione consumistica era stata preceduta da altre grandi acculturazioni, cioè la statale monarchia, quella della rivoluzione borghese e della rivoluzione industriale; l’esperienza italiana, caso a sé è assimilabile quindi solo a quella dei paesi sottosviluppati.
Anche la Democrazia Cristiana, partito allora al governo da circa trenta anni, è chiamato in causa, in quanto responsabile della drammatica situazione ed espressione di quella borghesia che aveva generato il “nuovo fascismo”. Pasolini accusa la classe dirigente di essere complice delle stragi e della strategia del terrore, incapace di individuare e punire mandanti ed esecutori.
Giunge così alla sfida al Potere ipotizzando un processo alla classe dirigente per colpire i responsabili dello “sfascio” del nostro paese. “Nella società del capitale si produce società: c’è una catena di significati nella metafora del Palazzo […] la connessione tra sviluppo (forze produttrici) e socializzazione (cioè rapporti sociali di produzione sulla base di questo sviluppo) […] E il Processo non è forse la metafora della responsabilità di classe, e cioè totale delle classi dominanti […] nella sua struttura di dominio economico – politico sociale? Non si tratta soltanto di un processi morale […] È la richiesta di verità della ‘mania della verità’.” [8]
Un tale destino dell’individuo e della collettività bella società dei consumi impone all’identità dell’intellettuale non asservito al potere una totale capacità di denuncia e di smascheramento. Pasolini quindi, nella sua conclusiva figura corsara, si mostra come il primo intellettuale del dissenso: considerando provocatorio, reputato inquieto e inquietante, riconosciuto scandaloso. L’intellettuale “corsaro”, nel quale Pasolini si riconosce, è, in effetti, opposto dell’intellettuale organico, un intellettuale dissidente, privo della funzione di tramite tra il potere e società. La sua critica è stata inoltre un dissenso alle parole omologate, una forma di “scandalo” semantico. Rispondeva alle domande e contemporaneamente formulava una richiesta, sempre alla ricerca di una risposta ai suoi infiniti perché, strutturando i suoi pensieri in un processo dialettico in cui il momento della sintesi si allontanava infinitamente. Egli parlava per così dire in corpore, gettando il suo corpo nella lotta. Era divorato dall’ansia di cercare, di interrogare, di scandalizzare. Più che scandaloso Pasolini si scandalizzava della realtà, cercando di comprendere prima ancora che spiegare.
Pasolini è mosso dunque Da una volontà di intervento, di polemica, orientata da un’istanza problematica e provocatoria, in una situazione culturale protesa ad un adattamento ai nuovi equilibri sia politici che intellettuali. Gli interventi pasoliniani inoltre portano alla luce il crollo della “sinistra” all’interno delle “grandi istituzioni” ed insieme ad esse la fine di ogni tensione alternativa.
La critica e il rifiuto del presente investe anche il passato. Se negli anni ’70 Pasolini ribadiva che “non c’è progresso senza profondi recuperi del passato, senza mortale nostalgia per condizioni di vita anteriori: dove si era comunque realizzato l’uomo spendendovi interamente quella cosa sacra che è la vita del corpo” [9], con riferimento evidente alla società agraria per – industriale, quella stessa da cui egli era uscito, interviene ora “un risentito rifiuto dell’allegro e miserabile mito sottoproletario (che era stato il suo), che non può non nascere da una sia pur contraddittoria capacità di riesame impetuoso del proprio passato e della sconfitta del proprio mondo originario.” [10]
Questo processo di “revisione” tocca il punto più alto nella sconcertante operazione avvenuta nel 1974 di ripetizione – riscrittura della poesia de La meglio gioventù (1974), cioè la seconda nascita.
Il primitivo idoleggiamento del Paese (“Fontana di age del me pais./ A no è age pi fres – cia che tal me paìs./ Fontana di rustic amòur”) [11] fa ora spazio ad un sentimento freddo e distaccato (“Fontana di age di un paìs no me./ A no è age pì vecia che ta chel pais./ Fontana di amòur per nissùn”) [12].
Molto interessante anche l’ultima sezione del libro: un gruppo di “poesie italo – friulane” e qualche appunto in prosa scritto negli anni 1973 – 74 con il titolo Tetro – entusiasmo. A prescindere dal risultato lirico non sempre riuscito, l’interesse principale è per correzioni e integrazioni. Il “ritornare indietro e ricominciare tutto” è un’affermazione dialettica, anche se non propriamente di una dialettica lineare o progressiva. Pasolini ha in un certo qual modo riaperto la querelle dell’Antico e del Moderno considerandola come sintomo della contraddizione sociale nell’epoca dell’assoluta modernizzazione. “La presunta tendenza pasoliniana alla regressione (che non è l’esperienza e la concettualizzazione di una caduta originaria, una caccia dell’Eden […] ma, come in un’esperienza dialettica, l’inizio della fine) è piuttosto l’intuizione della degradazione del moderno, del fallimento dell’utopia fondata sul ritorno critico del rimosso, dalla perdita del rapporto tra anamnesi e utopia, in cui è la dialettica, per Pasolini, di una possibile liberazione” [13]. In tale gruppo di “poesie italo – friulane” i ricordi perdono infatti la connotazione elegiaco mortuaria per colorarsi di toni polemici (“i plans un mond mùart./ Ma i no soj mùart jo ch’i lu plans./ Si vullian si avant, bisogna ch’i dizin di no/ a chista realtàt ch’a ni à sieràt/ ta laso prison”) [14]. Il tono polemico si concretizza nella proposta di un personale obiettivo che è quello di “altri modelli di sviluppo. Bisogna rifiutare lo sviluppo. Questo sviluppo perché è uno sviluppo capitalista.” [15].
Anche se questi dati rilevano – nella volontà lucida di analisi e di denuncia, nella rinuncia alla poesia in favore di una prosa fortemente scandita e martellante – quanto lacerato e scandaloso sia l’orizzonte di questa “antilirica” pasoliniana, è proprio da tali dati che si ricava un’espressione di apertura, di rinnovata tensione all’” opposizione”. La conferma ci è data dal suo ultimo film Salò e dalle motivazioni che lo precedono e lo seguono. Interessante al proposito un breve intervento pronunciato alla Biennale di Venezia, nell’autunno 1974.
Ancora una volta le critiche son rivolte al “nuovo potere”. “In effetti la tolleranza al potere nella rappresentazione diretta e poliziesca, è stata una decisione del potere: lo stesso potere che ha deciso l’inutilità dei valori come la Chiesa, la Patria, la Famiglia, la Mortalità del risparmio ecc […]in quanto dannosi all’espansione economica e alla figura del consumatore. La tolleranza in campo sessuale ha allargato enormemente i mercati, perché essa è una componente essenziale della mentalità del consumo, in cui il soggetto deve essere moderno, laico e quindi anche sessualmente libero: tutti elementi di quella ideologia neo – edonistica che è tipica della dittatura comunistica totalitaria in quanto totalizzante” [16].
Qui è anche la matrice di Salò: la stessa degli Scritti corsari. Ma allora il suo atteggiamento, anche se pervaso dall’ossessività di un tema ricorrente, si esprimeva nei modi di una polemica immediata o di una pessimistica diagnosi e uno sconsolato profetismo. Salò invece traspone questo allontanamento dal presente sul piano di una cupa riflessione tragica, con una operazione poetica ancora più radicale, totale in un certo qual modo rispetto alle sue premesse, ma proprio per questo, nel suo estremismo, meno invischiata nelle occasioni contingenti, più rigida ma anche più netta.
Dirà infatti Pasolini “io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso […] Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato sia, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo. Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo […] Il crollo del presente implica il crollo del passato […] Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’incontrollabile […] Mi è davanti il presente. Riadatto il mio impegno a una maggiore legittibilità (Salò) [17].
L’Abiura pasoliniana indica il passaggio da un ottimismo (sebbene temperato dalla nostalgia) ad un definitivo pessimismo. Certamente c’è stato un tempo in cui Pasolini credeva in alcuni valori positivi (ciò che percepiva come l’opposto del mondo “paterno” o borghese cioè il materno, il barbaro, il sottoproletariato, il “terzo mondo”):
utopia di un’innocenza, di un paradiso perduto, di una sessualità pura, senza colpa, di un mondo privo di peccato che, già prima di essere evocato nella Trilogia della vita, era stato descritto in Medea e Edipo re. L’attenzione dell’autore che, abbandonando il presente, grazie alla regressione poetica e letteraria, aveva accarezzato l’illusione di ritrovare le tracce dei popoli perduti (vigile sempre la sua coscienza critica dell’impossibilità del ritrovamento di ciò) si sofferma di nuovo su una contemporaneità che gli restituisce tutto l’orrore che prima aveva rifiutato, ma che ora mal riconosce.
Egli è consapevole del processo di adattamento generale alla degradazione della società da cui il nostro paese cerca di liberarsi solo nominalmente. Di fronte alle masse di giovani criminali e alle loro azioni violente, stanno le masse di coloro che non si accorgono di nulla o sdrammatizzano tutto perché incapaci di assumersi responsabilità.
Anche l’intellettuale Pasolini che ben legge “la realtà”, confessa il proprio adattamento allo status quo, infatti la leggibilità, cui egli accennava nella Abiura della Trilogia della vita, non è qualcosa di gratificante, al contrario è la caduta di un’illusione fortemente coltivata dall’autore negli anni della Trilogia, cioè l’illusione di poter opporre al grigiore dell’omologazione la forza irriducibile della “poesia”. In Salò, come nella già accennata riscrittura de La meglio gioventù, la poesia, disillusa e sgraziata, arriva alla negazione di sé. Egli ritrova certe tensioni mai morte negli anni ’50, specialmente quella di restare, “dentro all’inferno con la idoneità di capirlo”, ma con la consapevolezza che ciò non consiste la salvezza, infatti, grazie ad un rovesciamento radicale, è viva la certezza che il sesso è legato al Male (poiché la sua innocenza è divenuta opinione dominante); qui sta il legame tra Sede e il cristianesimo e tra Salò e la sceneggiatura di San Paolo: l’abiura di ogni concezione innocente e positiva della sessualità; vale a dire in fondo, la riaffermazione scandalosa per il conforto morale della specie, del peccato originale.” [18].
La sua è un’abiura in senso ideologico, il venir meno di alcune illusioni, principalmente quella dell’eros come forza vitale, esperienza necessaria alla crescita degli adolescenti.
L’approccio all’eros era un tema strumento di iniziazione alla vita degli adulti e spesso si consumava all’interno delle famiglie grazie alla generosità di donne adulte e sempre con gioia, così come si vede in alcuni Racconti di Canterbury e soprattutto nel Fiore delle mille e una notte. Ora l’eros coincide con il potere. Salò lo testimonia e ne mostra la sua valenza drammatica. Non più una sessualità intesa quale godimento della vita, gioia di vivere, scherzo ilare, ma Salò mostra, in modo preponderante, una sessualità violenta e governata dal denaro. Quando la razionalità ha il sopravvento sulle forze arcaiche, l’uomo si condanna all’infelicità. La felicità è quella descritta ne Il fiore delle mille e una notte, che rappresenta la stagione delle grandi illusioni dell’uomo. Già I racconti di Canterbury ricchi di significati ideologici, preannunciano il fallimento dell’eros inteso come forza liberatrice, fallimento che Pasolini teorizza in seguito negli Scritti corsari, dal vissuto celebre passerà alla visualizzazione.
I giovani infelici e violenti degli Scritti corsari, sono divenuti i gerarchi di Salò, esemplificazione della violenza. Salò, in cui il Fascismo storico è metafora di incontrollata violenza, si rivolge al nuovo fascismo, più pericoloso in quanto più velato ed i nuovi gerarchi altro non sono che i giovani infelici e violenti degli Scritti corsari cresciuti e divenuti ora i detentori del potere. Pasolini presenta una società adulta che si contrappone a quella giovane della Trilogia della vita e con questa operazione si allontana da quei giovani che tanto amava e assiste impotente all’annientamento della loro sessualità.
È la morte di ogni illusione e la fine della fiducia in qualsiasi valore.
L’abiura pasoliniana è un atto di fedeltà assoluta al partito preso dal perturbamento di tutti i conformismi e non rinnegamento o tradimento di tutta la sua filosofia di vita. Pasolini rivendica il diritto dell’intellettuale a ribellarsi contro se stesso nel momento in cui le sue tesi diventano strumento di propaganda per il raggiungimento, da parte della borghesia, di obiettivi completamente opposti. Il termine “abiura” impiegato da Pasolini, va compreso quindi in tutte le sue connotazioni: che non implicano soltanto palinodia, un cambiamento d’opinione, bensì: la fine di “un’eresia”.
Note al testo
[1] A. Ferrero, op. cit. p.38.
[2] A. Berardinelli, Prefazione a P.P. Pasolini, in Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 1993, p 8.
[3] P.P. Pasolini, Ebreo Tedesco, in Scritti Corsari, op. cit., p. 83.
[4] L. Martellini, P.P. Pasolini, op. cit., pp. 131-132.
[5] P.P. Pasolini, Il vero fascismo e il vero antifascismo, in Scritti Corsari, op. cit., p. 47.
[6] P.P. Pasolini, Vuoto di carità, vuoto di cultura, in Scritti Corsari, op.cit., pp. 46-47.
[7] P.P. Pasolini, Tetis, in Erotismo, evasione, merce. Bologna, Cappelli, 1974, p. 102.
[8] G. Scalia, La mania dealla verità, Bologna, Cappelli, 1978, pp. 22-23.
[9] T. Anzoino, op. cit., p. 9
[10] G.C Ferretti, Pasolini l’universo orrendo, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 105.
[11] P.P. Pasolini, “Dedica”, in La meglio gioventù, ora in la nuova gioventù, Torino, Einaudi, 1975, p. 7.
[12] P.P. Pasolini, “Dedica”, Ibidem, p. 167.
[13] G. Scalia, op. cit., p. 104.
[14] P.P Pasolini, “Dedica”, op. cit., p. 237.
[15] P.P. Pasolini, La nuova gioventù, op. cit., p. 241.
[16] “Film critica”, n. 248, ott. 1974 e in “Bianco e Nero”, n. 9-12, sett.- dic. 1974.
[17] P.P. Pasolini, Abiura della trilogia della vita, prefazione a P.P. Pasolini, Trilogia della vita, Bologna, Cappelli, 1975, p. 13.
[18] G. Scarpetta, L’Impuro, op. cit. p. 179.