Giuseppe Pontiggia e le parole necessarie
Di Geraldine Meyer
Le parole necessarie, di Giuseppe Pontiggia, mi piace pensarlo come un breviario laico. Da usare come una cassetta degli attrezzi per una corretta manutenzione della parola. Già il titolo richiama ad una esigenza etica, prima ancora che estetica o meramente stilistica, di riappropriazione dell’importanza della parola. Viviamo ormai da lungo tempo immersi in un’epoca in cui l’esaltazione dello spontaneismo ha portato con sé un appiattimento del pensiero e del linguaggio che ha avuto (e che costantemente continua ad avere) tra le sue più nefaste conseguenze una deriva di volgarità e cliché.
Giuseppe Pontiggia, una delle penne più eleganti e ricercate della letteratura italiana, in questo testo, che è un insieme di suoi interventi e articoli, ci riporta al nucleo centrale e inattacabile della parola, sia essa orale sia essa scritta. Un viaggio in un vero e proprio corpo a corpo, in un incessante lavorio di messa a fuoco, di cultura e consapevolezza di quanto scrittura e lettura siano una continua messa in discussione di ciascuno di noi. Come persone, prima ancora che come lettori o scrittori o, in ogni caso, come utilizzatori della parola.
La bellissima prefazione di Daniela Marcheschi, che del libro è anche la curatrice, ci mette davanti, fin dalle primissime parole, a ciò che ci troveremo tra le mani, scrivendo: “Secondo Giuseppe Pontiggia scrivere è progetto e sorpresa.” E già in queste due parole si delinea un vero e proprio manifesto programmatico che sconfina, inevitabilmente, in quello che è il vero cuore della scrittura di Pontiggia e della sua idea di scrittura. Che è quella di una vera e propria “fabbrica del testo” come scrive sempre Marcheschi: “nel duplice significato di fabbrica-edificio in corso di costruzione e per la costruzione di qualcos’altro.”
Progetto, sorpresa, ispirazione sono ciò che diventa necessaria propedeutica alla creatività, frutto di lungo lavoro e non, come diventato di moda a partire dal romanticismo, arcadico e ingenuo frutto della spontaneità.
Scrittura e anche lettura dunque, questo ci dice Pontiggia, come immersione totale in un progetto che è, come da etimologia, qualcosa che si getta avanti per costruire una realtà, un’ipotesi che va facendosi insieme alla narrazione con cui, questa realtà, la si racconta. Ecco perché la letteratura, per Pontiggia, non poteva non essere frutto di un continuo esercizio ma, ancor più, frutto di una cultura interdisciplinare, indispensabile per arrivare ad un risultato che deve essere formalmente curato.
E qui si entra nel territorio forse più importante tra quelli esplorati da Pontiggia, la forma appunto. La retorica, quell’insieme di regole che arrivano dall’antichità e che costituiscono, non solo la cornice formale di un testo o di un discorso ma la vera sostanza di esso. Informandone gli stessi contenuti e costituendone, anche, le possibili varianti. “L’importante è il contenuto” dunque è la più grande disgrazia in cui la nostra epoca si sia imbattuta, con il conseguente appiattimento gergale di linguaggio e anche di pensiero. Cos’è il gergo quando si parla di pensiero? È il luogo comune, è la mancanza di senso critico, è l’incapacità di costruire un senso attorno a ciò che si pensa, si dice e, dunque, si vive.
È proprio la necessità, riprendendo il titolo, di cercare parole, di lavorare attorno ad esse, quella che troviamo tra le pagine di questo libro. Qualcosa che banalmente qualcuno potrebbe considerare un manuale di scrittura ma che è, in realtà, un monito ad assumersi la piena responsabilità delle parole. Che è politica proprio perché formale.
La cifra dell’insegnamento di Pontiggia, così potente nella sua opera, è ancor più evidente in queste pagine di La parola necessaria, è dunque non quello di normare in modo precostituito (che è quello che fanno molte scuole di scrittura) ma, al contrario, quello di chiamare a gran voce verso “l’esperienza della parola in sé e della parola letteraria, vissuta con intensità” come scrive Daniela Marcheschi.
Da qui l’esigenza del duro lavoro formale, che è rispetto verso sé stessi (quando scriviamo) e verso chi legge o ascolta. Perché è proprio un lavoro che fa facendosi, come scrive Pontiggia in quanto “la retorica è importante proprio per trovare idee. […] il gioco retorico serve non solo a rendere efficaci le idee, ma a trovarle. È come una rete che viene gettata.”
Saggistica
Marietti 1820
2018
105