LEOPARDI VS LEOPARDI
Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”
Di Ivano Mugnaini
Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale. Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino e quello pisano. La domanda è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta. Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura monocorde descritta in molti libri scolastici in stile Bignami. Non era e non è esclusivamente il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
È anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie volutamente infantili dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito. È l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi. Ma è un lusso che non possiamo e dobbiamo permetterci.
Questa creatura complessa e multiforme arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che la circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova
il modo di armonizzare la sua sete di vita con la necessità di dare ordine al
suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per
riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé
e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il
passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva
la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del
poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Vi
arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino e vi si
trattenne fino al giugno del 1828.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a
scrivere:
Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una
beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo
Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio,
così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a
Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di
questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena
di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla
un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di
galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella
architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola,
di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto
altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi
si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito (12
novembre 1827).
Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione. La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.
Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: «Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi».
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua apparente semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente, a un’ipotesi: «Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa». A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono errori, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.