Di Geraldine Meyer
Spostamenti. Prose e racconti, questo il titolo dell’ultimo libro di Giovanni Granatelli, catanese di nascita e milanese d’adozione. Che libro è quello che ci troviamo tra le mani? Un libro di viaggi? Di ricordi? Di riflessioni? Un po’ di tutto questo ma non solo. Giovanni Granatelli, con la sua scrittura gentile, ci conduce con la maestria di chi, anche da musicista, è avvezzo al ritmo.
Spostamenti è un libro chi ci porta a comprendere, se ancora ce ne fosse bisogno, come estetica e etica non possano viaggiare separate. Perché a tenerle irrimediabilmente unite è lo sguardo. Ecco perché la parola spostamenti acquista una valenza di ben altra portata rispetto a quella a cui, solitamente, si accompagna questa parola. Perché gli spostamenti sono quelli dello sguardo, dell’ascolto, dell’olfatto anche, dell’aspettativa di ciò che crediamo ci attenda al di là di un lungo viaggio ma, anche e soprattutto, di quello che possiamo chiamare “viaggiare vicinissimo”. Indicativo in tal senso, il ricordo/racconto, di quello che, proprio grazie allo sguardo, da spostamento lungo un tratto della metropolitana milanese, diventa un vero viaggio fatto di tappe di osservazione più che di luoghi, cullati dalla sollecitazione che possono indurci i nomi delle stazioni, gli sguardi delle persone, le fantasie che ci si fa su di esse.
Trieste, Parigi, Praga, la stazione di Rimini, la Sicilia delle vacanze da bambino, tutto, in questo libro di Granatelli, parte dal dettaglio per restare nel dettaglio arricchendolo però di ciò che inevitabilmente arriva quando si segue ciò che è mobile per definizione: lo sguardo appunto.
La letteratura di viaggio, o odeporica come si dice in termine tecnico, si mostra tra queste pagine, uno spartito fatto di note ben limitate numericamente ma che suonano in modo diverso a seconda di come le si mescola. Un ricordo che si mescola a una riflessione, un’immagine che si mescola a un attimo trascorso con la figlia a cercare l’orsa maggiore, il caldo di Gerusalemme che si mescola al concetto di confine, la bellezza stordente e un po’ languida di Venezia che si mescola ai pensieri su quanto sia facile violentare la meraviglia.
I racconti di Giovanni Granatelli ci si presentano davanti agli occhi come se fossero delle istantanee che, volutamente, sono a volte messe a fuoco nitidamente, altre sono sfuocate, in una alternanza di precisione e divagazione che, ancora una volta, è la cifra vera di ciò che non sta fermo, ancora una volta lo sguardo. Che non ha bisogno di compiere distanze chilometriche per afferrare sfumature, ombre, sorrisi o emozioni. Può bastare anche il breve spazio tra il bancone di un pub britannico e la bocca che si disseta con una birra durante la telecronaca di una partita di calcio. I centimetri, i metri o i chilometri sono distanze neutre di per sé, di quasi nessuna differenza. Tutto dipende da cosa si mette dentro a questi viaggi/spostamenti. Quale scarto, quale emozione si decide di portare come bagaglio. Chi di noi non ricorda quando, da bambini, anche girare l’angolo ci faceva battere il cuore all’idea di poter trovare, all’improvviso, qualcosa di inaspettato.
Ecco, forse è proprio la meraviglia, parola tanto abusata quanto poco davvero compresa, quella che ci accompagna durante la lettura di queste pagine. La meraviglia della prospettiva, che è mentale prima ancora che geografica e che è mutevole sia che si passeggi per Gorizia assorbendone luci e edifici, sia che si viva (più ancora che si gusti) un pasto in una minuscola trattoria veneziana o che ci si trovi a immaginare la vita di una giovane coppia che sale sul vagone della metropolitana su cui ci troviamo anche noi.
Un altrove che, dovunque sia, può mettere in discussione i nostri pregiudizi, farci intravedere una vita altra, con quel sottile senso di colpa che ci assale pensando alla vita che abbiamo ma che non è motivo sufficiente per non sognare oltre.
Libro di viaggio
Nardini Editore
2020
109